Gli affari che si fanno con i vestiti usati
di Marina Forti (*)
Come funziona la lunga filiera del riuso e riciclo degli abiti tra beneficienza, profitto e criminalità
Cosa c’entra la beneficenza con il commercio? Nel caso degli indumenti usati, c’entra. C’è chi dona abiti dismessi pensando di aiutare altre persone, e chi raccoglie quegli stessi abiti e li trasforma in un affare redditizio. Per qualcuno è un gesto di solidarietà, per altri un settore del mercato. Non è che un passo: la merce è l’impressionante massa di abiti, scarpe o accessori dismessi che buttiamo nei cassonetti gialli della raccolta differenziata. Questo gesto mette in moto una filiera complicata, che coinvolge intermediari e aziende specializzate nel recupero, rivenditori, esportatori. E crea considerevoli profitti.
Seguiamo questo percorso. Cominciamo da un capannone nella zona industriale di Cinisello Balsamo, area metropolitana di Milano: è la sede operativa di Vesti Solidale, cooperativa sociale legata alla Caritas Ambrosiana che ha in gestione metà dei cassonetti gialli a Milano e in altri comuni dell’area metropolitana.
Ogni mattina da qui una trentina di camion parte per svuotare i cassonetti. Tornano dal loro giro con tonnellate di indumenti, scarpe o altro, di norma chiusi in sacchetti di plastica, e li scaricano in grandi casse di rete metallica su cui viene indicato il peso e la data. Nel pomeriggio di un giorno di ottobre decine di contenitori sono accatastati su un lato del capannone. Vesti Solidale ha in concessione circa 850 cassonetti in un’ottantina di comuni dell’area milanese; nel 2021 ha raccolto intorno a 5.400 tonnellate di materiale. Fa una media di 14 tonnellate al giorno, a volte meno, a volte più: ottobre è un momento di punta, “nei cambi di stagione le persone buttano via più cose”, osserva Matteo Lovatti, presidente della cooperativa.
Il capannone di Cinisello Balsamo è solo un primo passaggio. “Qui lavoriamo circa il dieci per cento di ciò che raccogliamo” spiega Lovatti, “il resto lo rivendiamo a imprese commerciali che si occupano del recupero”. Da qui dunque montagne di sacchi di plastica multicolore ripartono, così com’erano arrivate, stipate nei rimorchi di grandi camion diretti in Campania.
A costo zero
Qualcosa di simile avviene in tutta Italia. I comuni, direttamente o tramite le aziende municipali della nettezza urbana, affidano la raccolta differenziata del rifiuto tessile urbano a imprese esterne, di solito cooperative sociali (di tipo B, cioè finalizzate all’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati). A differenza di altri rifiuti speciali, disfarsi del tessile usato ha costo zero per la collettività: la raccolta è gratuita perché chi prende la concessione dei cassonetti gialli si ripaga con ciò che contengono. Anzi, c’è chi pagherebbe per raccogliere la massa impressionante di abiti, maglioni, cappotti, giacconi, borsette, scarpe e indumenti vari, spesso ancora buoni, buttati dai cittadini.
Secondo Unirau, il consorzio delle imprese di recupero di indumenti e tessili usati, in Italia ogni anno vengono scartati da tre ai cinque chili di materiale tessile usato per abitante, con le punte più alte nel nord e nelle grandi città. In tutta Italia i cassonetti della differenziata hanno raccolto quasi 160mila tonnellate di abiti dismessi nel 2019, un po’ meno durante la pandemia (secondo l’Istituto superiore per la ricerca e protezione ambientale, Ispra). A questo si deve aggiungere il materiale raccolto dai cassonetti abusivi collocati in aree pubbliche: prassi molto diffusa, anche se difficile da quantificare. E il flusso parallelo delle donazioni raccolte direttamente da enti umanitari: anche questo finisce prima o poi nella filiera commerciale.
Le imprese che svuotano i cassonetti gialli però di rado “lavorano” il materiale raccolto. Più spesso lo rivendono tale e quale a trasportatori che fanno da intermediari, oppure direttamente a imprese che comprano a peso quella massa indistinta. E questo è il secondo passaggio.
Ci spostiamo tra Montemurlo e Prato, nel più grande distretto di tessile e abbigliamento in Italia, dove migliaia di aziende grandi e piccole sono specializzate in filatura, tessitura, confezioni, maglieria, o nel recupero di fibre tessili (a Prato il riciclo della lana è un’eccellenza), e anche nel mercato di seconda mano.
Il valore degli stracci
Entriamo in un altro capannone: l’insegna dice “Import-export indumenti usati”. L’azienda compra rifiuto tessile dall’Italia e altri paesi europei, lo seleziona e lo rivende. Qui i sacchi recuperati dai cassonetti gialli vengono infine aperti; il contenuto viene raccolto in grandi carrelli, sanificato per abbattere i batteri (con l’ozono), poi comincia la cernita.
È l’operazione fondamentale. Intorno a lunghi tavoli ogni singolo pezzo è preso in mano da un addetto che valuta se è buono per il mercato di seconda mano; se diventerà fibra da riciclare; se è solo spazzatura. Pochi istanti per capire il valore di ciascuna felpa, jeans, maglietta, abito, borsetta, calzatura, e buttarla nel contenitore corrispondente. “Non è un lavoro che possono fare le macchine”, spiega Ferdinando Rangini, uno dei tre soci dell’azienda.
La merce per il riuso sarà ulteriormente selezionata: i pezzi migliori (la “crema” o “extra crema”) sono destinati al “vintage” e ai negozi di seconda mano. Quelli meno pregiati, suddivisi in prima, seconda o terza scelta, finiranno sulle bancarelle in Italia o saranno esportati, per lo più in Europa orientale o in paesi africani. Anche il materiale da riciclare va ancora selezionato per colore e per fibra (lana, cotone, viscosa o altro). “Ci vuole occhio”, insiste il titolare mostrando un pantalone da donna, buona lana grigia, ottimo stato: ma lo butta nel contenitore della lana da riciclare perché “è un taglio fuori moda”.
Circa il 68 per cento degli indumenti usati va nel riuso; il 29 per cento sarà riciclato come fibra tessile e il tre per cento è rifiuto da smaltire
Dopo la cernita e la disinfezione, il materiale cambia categoria: quello che a norma di legge era un “rifiuto speciale” diventa materiale per il riuso o il riciclo, cioè torna a essere una merce. A questo punto gli abiti usati, selezionati per categorie, sono venduti a grossisti che riforniscono i negozi di seconda mano o i venditori ambulanti. Il materiale da recupero, anche questo selezionato, è venduto alle aziende che riciclano la fibra; lo scarto andrà smaltito.
“Qui facciamo tutto il ciclo del recupero”, dice Fabio Marseo, titolare della Gemar, un’altra impresa di Montemurlo che compra indumenti usati all’ingrosso per selezionarli: “Ciò che rivendiamo è abbigliamento selezionato oppure materia prima seconda”. La sua impresa è giovane, spiega, ma la famiglia Marseo è da tre generazioni nel commercio di abiti usati, prima a Napoli e poi a Prato. “Qui riusciamo a riusare o riciclare il 97 per cento del materiale che entra: ed è possibile perché siamo nel distretto pratese, dove si trovano tutte le competenze del settore”.
Secondo il rapporto 2020 della Fondazione per lo sviluppo sostenibile-Unicircular, circa il 68 per cento degli indumenti usati va nel riuso; il 29 per cento sarà riciclato come fibra tessile e il tre per cento è rifiuto da smaltire. Le stime per la verità variano. Secondo il Rapporto sul riutilizzo 2021 pubblicato da Occhio del riciclone (osservatorio promosso dalla rete Onu, Operatori nazionali dell’usato, che include associazioni e ong), la parte destinata al riuso scende al 60 per cento e lo scarto sale al 10.
Camicie di seconda mano esposte in un mercatino delle pulci, Milano, 2019. (gpriccardi, Alamy)
In ogni caso, il centro di tutta la filiera è questa cernita. Il profitto dipende da quanti capi di buona qualità si estraggono dalla massa. E molto dipende dalla provenienza degli “stracci”: i più richiesti arrivano delle zone più benestanti d’Italia o dal nord Europa, dove si scartano indumenti migliori e meno consunti.
Prato è il secondo distretto italiano per il riuso e recupero di indumenti usati; il primo per quantità “lavorata” è quello di Ercolano-Caserta. Proprio dove erano nati i “mercati degli stracci” alla fine della Seconda guerra mondiale, quando a Resina (antico nome di Ercolano) e a Livorno arrivavano container pieni di abiti usati dagli Stati Uniti. Nei passaggi successivi però la filiera si complica, e diviene meno trasparente. Gli abiti selezionati dalle imprese di Prato o del casertano vanno in parte sul mercato italiano, ma soprattutto saranno venduti all’estero, dai Balcani alla Tunisia a numerosi paesi africani. Parte del materiale sarà ulteriormente selezionato, per esempio in India o in Pakistan, per tornare in Italia come materia prima.
Cosa c’entra la beneficenza?
Cosa c’entra dunque la beneficenza? Torniamo nel capannone di Cinisello Balsamo. La cooperativa Vesti Solidale è nata nel 1998, promossa dalla Caritas Ambrosiana. Fa parte del consorzio di cooperative sociali Farsi Prossimo, nome ispirato al cardinale Carlo Maria Martini, allora arcivescovo di Milano, che parlava di “farsi prossimo, lavorare con le fasce più deboli della società, promuovere la solidarietà umana, la cura, l’ambiente”, ricorda Lovatti.
La raccolta degli abiti per i bisognosi è tradizione, per le organizzazioni ecclesiastiche, ma ha assunto nuove dimensioni con l’avvento dei cassonetti, negli anni ‘90: in particolare quando una certa azienda (che ritroveremo) ha proposto a molte Caritas diocesane farsi partner per la raccolta. “Ci ha insegnato il mestiere”, spiega Lovatti: “Poi abbiamo cominciato a gestire noi stessi la raccolta”.
Dunque Vesti Solidale opera come un’impresa commerciale: è iscritta all’albo delle imprese autorizzate a raccogliere rifiuti tessili, vanta diverse certificazioni di qualità, rivende buona parte del raccolto a note aziende del recupero. Ma ha finalità sociali: dei suoi 125 dipendenti oltre un terzo sono ex detenuti, disoccupati ultra cinquantenni, rifugiati, cioè soggetti “svantaggiati”. Con altre cooperative della raccolta di indumenti nelle diocesi di Milano, Brescia e Bergamo, nel 2012 ha formato il consorzio Riuse.
Da cinque anni recupera in proprio una parte di ciò che raccoglie; nel capannone di Cinisello, mille metri quadri di superficie, ha ritagliato uno spazio per la cernita manuale: “Selezioniamo i capi di qualità, li disinfettiamo, e li vendiamo nei nostri negozi Share-Second Hand”, spiega Lovatti. Nel 2021 Vesti Solidale ha ricavato 1 milione e 847 mila euro dalla vendita degli indumenti raccolti, di cui versa il dieci per cento al consorzio Farsi Prossimo per finanziare progetti sociali della Caritas.
Sui cassonetti gialli gestiti da questa cooperativa è visibile il logo della rete Riuse e la scritta Dona Valore, insieme a quello dell’Amsa. Altrove si possono trovare i nomi di Caritas diocesane, o di organizzazioni umanitarie come Humana.
Jeans venduti in un mercato di seconda mano, Milano, ottobre 2018. (Alamy)
Lasciamo per un momento i cassonetti della differenziata. La Città ecosolidale della Comunità di sant’Egidio, in zona Ostiense a Roma, è un grande spazio che conserva la struttura della ex caserma che era un tempo, con diverse palazzine e magazzini chiusi da un muro di cinta: qui si raccolgono indumenti, giocattoli e altro per pura beneficenza.
Da tempo la Comunità raccoglieva abiti e coperte per aiutare persone senza fissa dimora. “Poi nei primi anni duemila abbiamo ottenuto questo spazio demaniale in comodato”, spiega Marco Sala, direttore della Città ecosolidale: “Da allora la massa delle donazioni è aumentata, e per gestirla è nata una cooperativa sociale che oggi dà lavoro a circa 35 persone”. Dal punto di vista giuridico queste sono donazioni, non “rifiuto differenziato”, ma in pratica anche qui tutto finisce in grandi carrelli, sarà trattato con l’ozono e poi selezionato.
“La prima scelta sono capi in perfetto stato, perché ai bisognosi diamo solo cose di buona qualità”, continua Sala. Questi vengono messi in scatoloni per tipo di indumento (cappotti, felpe, maglie e così via) e “inviati agli operatori delle comunità sparse sul territorio, secondo le loro necessità”.
Ogni mese sono distribuite circa due tonnellate di indumenti, Qui però ne entrano tra 28 e 30 tonnellate. Una parte viene ancora selezionata e rivenduta nel negozio di seconda mano e vintage della stessa Città ecosolidale: il ricavato, tra 8 e 10 mila euro settimanali, concorre a finanziare le opere sociali della Comunità di sant’Egidio. Anche così però avanza ancora una gran massa di indumenti: “Li rivendiamo a un trasportatore che li consegna a imprese del recupero nell’area napoletana”. Beneficenza o raccolta differenziata, il punto d’arrivo è lo stesso.
La commissione ecomafie
La commistione tra beneficenza e filiera commerciale ha messo in allarme la Commissione bicamerale d’inchiesta sugli illeciti connessi al ciclo dei rifiuti, detta “commissione ecomafie”. Nella scorsa legislatura questa ha indagato su scarti tessili e indumenti usati; ha sentito associazioni di imprenditori, operatori sociali, carabinieri, guardia di finanza, magistrati e procuratori antimafia. In una relazione approvata il 7 settembre scorso segnala diversi fenomeni illeciti: dal commercio in nero di indumenti usati non tracciati all’origine, ai cassonetti abusivi, a sistematiche infrazioni delle norme sulla sanificazione.
Cita le procure antimafia, che segnalano “un crescente interesse della criminalità organizzata” per questo settore. Riferisce di indagini che coinvolgono famiglie di camorra con propaggini tra Ercolano e Prato; elenca casi di materiale esportato verso l’India e il Pakistan in teoria per il riciclo, ma si sospetta per essere smaltito illegalmente.
L’indagine parlamentare chiama in causa la Caritas. Non per accusare l’ente ecclesiastico di illeciti, certo. “Il punto è che se la Caritas ci mette il nome, il cittadino è indotto a pensare che ciò che butta nel cassonetto andrà in beneficenza”, dice Stefano Vignaroli, deputato del Movimento cinque stelle nella scorsa legislatura, già presidente della commissione parlamentare. Spesso però le Caritas “si limitano a prestare il proprio nome a soggetti che si occupano della raccolta, in cambio di una percentuale irrisoria dei ricavi che realizzano, senza preoccuparsi di come lavorano quelle imprese, o se afferiscono a organizzazioni poco pulite”, spiega. “Il principio del riuso e riciclo è prezioso. Ma c’è molto falso riuso e falso riciclo nella filiera degli indumenti usati”.
La relazione ricostruisce il caso di una grande azienda, Tesmapri, che dagli anni ‘90 raccoglie indumenti tramite cassonetti, in particolare gestiti per conto delle Caritas di tutto il centro e nord Italia . Finché è stata indagata per vari reati, e nel 2018 condannata in primo grado: secondo la sentenza esportava in modo illegale e sistematico rifiuti tessili in Tunisia, spacciati per indumenti selezionati per il riuso ma in realtà senza sanificazione e cernita. Nell’istruttoria si cita anche un possibile legame con una delle famiglie di camorra attive nel settore.
Il fatto è che la cooperativa Vesti Solidale lavorava proprio con la Tesmapri, e con una seconda azienda indagata per reati analoghi. Questo non significa che la Caritas sia in affari con la camorra: ma certo si è trovata sotto scrutinio. “Abbiamo avuto a che fare con persone che lavoravano male”, dice Matteo Lovatti nel suo ufficio a Cinisello Balsamo. “La cooperativa Vesti Solidale ha subito interrotto ogni rapporto con le aziende indagate”, spiega.
“Preciso però che all’epoca entrambe avevano le regolari autorizzazioni e non c’è ancora una sentenza definitiva nei loro confronti”. La cooperativa Vesti Solidale ha subito un danno “sia economico sia di reputazione”, insiste. In ogni caso, da allora la rete Riuse ha aumentato le verifiche sulle aziende con cui lavora. “Controlliamo che non abbiano carichi pendenti e siano nella white list, la lista di imprese di provata legalità stilata dalle prefetture”, spiega Carmine Guanci, coordinatore della rete legata alla Caritas Ambrosiana. Anche la diocesi è corsa ai ripari, con raccomandazioni agli enti ecclesiastici e una pagina web in cui si spiega “a chi vanno gli abiti usati” raccolti nei suoi cassonetti gialli.
La responsabilità del produttore
“Speriamo che la nostra relazione contribuisca a fare luce su questo settore”, dice Stefano Vignaroli. Intanto però l’affare degli indumenti usati sta cambiando. In parte perché cambiano le norme: la raccolta differenziata è ormai obbligatoria e presto in tutta Europa potrebbe entrare in vigore la “responsabilità estesa del produttore”, proprio come per i prodotti elettronici o i toner delle stampanti.
I produttori di abbigliamento saranno responsabili dei loro prodotti quando sono scartati. Si parla di consorzi per gestire la raccolta e il recupero. In previsione, molte aziende del settore hanno cominciato ad associarsi. A Prato è nato un nuovo “consorzio per il riuso e il riciclo del tessile”, Corertex, per ora con 25 aziende associate “che offrono garanzie di qualità e di trasparenza”, dice Fabio Marseo, vicepresidente del consorzio.
Anche il mercato cambia. Il prezzo internazionale degli abiti usati è sceso drasticamente a partire dal 2018: sia perché aumenta la quantità messa in circolazione da paesi come Corea e Cina; sia perché molti paesi hanno bandito l’importazione di abiti di seconda mano per proteggere la produzione locale.
Sia soprattutto perché la qualità degli abiti scartati è sempre più bassa: “La moda pronta, o fast fashion, inonda il mercato con indumenti di bassa qualità che durano pochissimo. Così, aumenta la massa di scarti che non si riescono a riusare e neppure riciclare, perché sono fibre sintetiche o miste”, fa notare Fabrizio Tesi, titolare di un’azienda che ricicla lana (la Comistra di Montemurlo) e presidente di Astri, associazione che riunisce 160 aziende che riciclano fibre tessili. Il valore degli stracci cala, la quantità di spazzatura da smaltire a caro prezzo aumenta. E così pure il rischio di illeciti.
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(*) ripreso da www.essenziale.it
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