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Giovanissimi in rete, abitudini e rischi della iperconnessione

Sono cresciuti con lo smartphone in mano e il tablet nello zainetto. Sono i post-millennials, o 'generazione Z' come amano chiamarli negli USA, i giovani nati nella seconda metà degli anni novanta o all’inizio del nuovo millennio. Secondo la ricerca di Generazioni Connesse – il Safer Internet Center promosso dal MIUR – questi giovanissimi trascorrono almeno 5 ore al giorno connessi in modalità multi-dispositivo (smartphone, tablet, tv, pc, iPod). Il 40% dei 1775 giovani intervistati dichiara addirittura di superare le 5 ore. Quasi una doppia vita digitale o forse – più semplicemente – una nuova scansione temporale che definisce in modo peculiare la vita di questa generazione rispetto alle precedenti. Basti pensare che l’analoga ricerca effettuata l’anno precedente registrava in merito alle ore trascorse on-line un dato inferiore all’attuale di circa il 17%. 

Abitudini temporali ma anche spaziali che si concretizzano in decine di ore a settimana trascorse nelle piazze virtuali di WhatsApp (81%), Facebook (77%) e Instagram (62%). Un trend in continuo aumento che espone i più giovani all’incontro non mediato con quel mondo post-veritiero fatto di fake news, hate speech, filter bubble e digital illiteracy. Secondo la ricerca un intervistato su quattro tende a fidarsi di ciò che legge online senza verificare la fonte se il contenuto è stato già condiviso dagli amici e ben il 13% ammette di aver insultato un personaggio pubblico sui social network almeno una volta, anche attraverso profili falsi. Sebbene la patecipazione attiva alla gogna mediatica sembri un comportamento accettato sui social, i dati che si riferiscono al mondo reale riportano un quadro differente: il 28% di quelli pronti a mettere alla gogna un personaggio pubblico o un coetaneo sul web non lo farebbe se avesse la persona di fronte. E' la conferma di quanto accaduto anche recentemente quando la Presidente della Camera Boldrini ha pubblicato i post di odio nei suoi confronti senza omettere nomi e cognomi dei cosiddetti haters. Alcuni di loro hanno espresso poi pubblicamente le proprie scuse, stigmatizzando il proprio errore come dovuto alla scarsa conoscenza del mezzo che stavano utilizzando. 

E quando si affronta il tema del discorso d'odio, il c.d. hate speech online, purtroppo la musica non cambia. La disattenzione nei confronti di ciò che “passa” in rete è elevata. Stando ai dati di una ricerca analoga condotta a gennaio dall'Osservatorio Giovani dell’Istituto Giuseppe Toniolo su un campione di 2182 persone (appresentativo dei giovani italiani di età 20-34 anni) l’hate speech è considerato molto grave dal 44,4% degli intervistati e abbastanza grave dal 45,0%. L’opinione generale è negativa, ma non va ignorato il fatto che oltre 1 giovane su 10 (10,6%) lo considera poco o per nulla grave. Tale valore sale al 15% tra chi ha titolo di studio basso.
Di fronte a dati a dir poco sconfortanti diventa sempre più necessario un intervento mirato che non abbia solo il carattere censorio del “questo non si può fare”. C'è bisogno di una nuova cultura digitale che possa interrogare e guidare le nuove generazioni nelle complesse circostanze del web, quella che oltreoceano viene chiamata digital literacy, una forma di competenza oggi indispensabile quanto ignorata. 

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