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Giorgetti e gli aiuti di stato comatoso

Per una politica di sviluppo economico italiano: partiamo dai massimi sistemi geopolitici, arriviamo ad ambulanti e balneari

 

Interessante audizione “programmatica” del ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti (Lega), davanti alle commissioni riunite Attività produttive di Camera e Senato. Alcune considerazioni sono di senso comune ma sfortunatamente appaiono frammischiate ad altre in cui si ritrovano molti luoghi comuni della cultura assistenzialistica italiana, di sostegno agli amici del bacino elettorale e di abituale lamentazione contro la Ue, capro espiatorio della nostra incapacità di stare al mondo.

La prima rivelazione lascerà sconvolti quanti arrivano ora da Marte. Il nostro paese ha un problema strutturale,

[…] costituito dal peso eccessivo di una legislazione debordante e di un tessuto normativo intricatissimo che costringe l’iniziativa economica entro maglie spesso soffocanti che di fatto ne paralizzano o quanto meno ne rallentano l’attività e dall’eccessiva farraginosità delle procedure per l’attuazione concreta delle scelte pur faticosamente adottate.

E sin qui, nulla quaestio, all’incirca. Abbiamo scritto fiumi di parole per spiegare quella che secondo noi è la radice del problema italiano: una società civile debole, ultra corporativa e a bassa fiducia, che come tale vede il mondo come un gioco a somma nulla, dove se vinco io perdi tu, e che di conseguenza passa il tempo a cercare di strapparsi di mano brandelli di risorse fiscali distribuite da uno Stato debolissimo.

Troppe norme, siamo italiani

Siamo campioni mondiali nella creazione di circoli viziosi e ipernormazione, dove il tentativo di contrastare aggiramenti delle norme, spesso da parte di gruppi sociali diversi da quello pro tempore al governo, porta a nuove regole gemmate dalle precedenti, che vengono aggirate nella sostanza ma non nella lettera, e così via. Ma non siamo qui per fare sociologia spicciola, ora.

Ma per Giorgetti questa è ottima occasione per sommare i nostri problemi come società a quelli, veri e immaginari, che derivano dal gioco cooperativo comunitario:

[…] alla già pesante complessità e lentezza con la quale l’Unione europea si muove e che proprio le recenti vicende di questi giorni, per quanto concerne le strategie per l’uscita dalla pandemia con le campagne vaccinali, hanno drammaticamente messo in luce: i Paesi più pragmatici, dagli Stati Uniti al Regno Unito, hanno nettamente staccato l’Ue.

Qui la storia è un filo più complessa. Ci sono stati problemi di approvvigionamento dei vaccini, soprattutto a causa di AstraZeneca, il cui capo azienda è noto per l’abilità di overpromise e underdeliver, come efficacemente si è detto di lui.

Europa e interessi nazionali

Poi ci sono gli ovvi, anche ai più candidi, interessi nazionali. A puro titolo di esempio la voragine di offerta che il continente ha dovuto subire per il flop dei francesi di Sanofi. Poi ci sono le opacità dei contratti negoziati collettivamente, che tuttavia sono tali anche per altri paesi, e dove probabilmente le aziende farmaceutiche hanno fatto surfing contrattuale.

Ci sono poi cose che forse a Giorgetti sfuggono, ad esempio il fatto che la Ue non ha una politica sanitaria comune. A parte ciò, sfugge anche il fatto che la Ue necessita di un gioco cooperativo tra ventisette giocatori. Il punto, semmai, è chiedersi se i benefici di questa cooperazione continuino a eccedere i costi del coordinamento, tra cui la lentezza e gli esiti subottimali o presunti tali.

A me viene una considerazione molto spicciola: l’aumento del numero di giocatori e la riduzione delle loro dimensioni di solito non ne accresce il potere negoziale, credo. Ogni regola ha le sue eccezioni, ovviamente. Ad esempio, tutti noi vorremmo essere Israele, almeno nella gestione del procurement vaccinale. Il rischio invece è di finire come governatori di qualche regione italiana, che annunciano coram populo abboccamenti con improbabili mediatori per comprare decine di milioni di dosi di vaccino e poi rischiano di svegliarsi con l’atto di acquisto del Colosseo.

Di certo, il peggiore dei mondi possibili è quello in cui i bizantinismi italiani si sommano al barocco europeo. Ad esempio, avere una legislazione sugli appalti pubblici che realizza una superfetazione di norme nazionali rispetto a quelle europee. Il cosiddetto gold plating, da cui è severamente afflitto il codice dei contratti italiano. Ma questa escrescenza normativa altro non è che la conseguenza della diffidenza sociale che mina questo paese e che porta i gruppi a catturare quante più risorse fiscali possibili, dirottandole dall’uso collettivo.

Campioni europei, prede nazionali

Sull’Europa e lo scenario di blocchi geopolitici sempre meno amichevoli e sempre più concorrenti, Giorgetti invita il nostro paese a partecipare

[…] attivamente alla discussione, avviata in ambito europeo, per la revisione della normativa in materia di aiuti di Stato per rimuovere una serie di vincoli e limitazioni che potevano giustificarsi nella fase di costruzione del mercato interno ma che risultano oggi decisamente anacronistici se non autolesionistici quando si tratta di fronteggiare la concorrenza delle economie emergenti.

Questo pare ricordare il concetto di “campioni europei”, caro soprattutto a Emmanuel Macron, almeno sin quando le aziende del suo paese sono poli aggreganti e non aggregati. Anche qui, stesso problema: ammettiamo pure che servano campioni europei, ma che si fa con ventisette paesi?

L’Italia è pronta a fare aggregare le sue aziende sane, magari per mano di aggregatori tedeschi o francesi, oppure finirà ad asserragliarsi tra le patrie mura e sguinzagliare i servizi segreti? Ah, saperlo. Quello che sappiamo è che la distanza tra proposizioni ideali e realtà, in un gruppo di paesi che coopera ma anche compete, può essere molto ampia.

Anzi no, lo sappiamo. Per Giorgetti, il governo italiano sarebbe pronto a valutare di

[…] estendere l’ambito di applicazione della golden power anche a filiere che allo stato ne sono escluse e rivestono un evidente rilievo nell’assetto economico nazionale.

Tavoli artigianali di crisi

A posto, quindi. Ci difenderemo dalle “economie emergenti” e anche da quelle emerse a colpi di golden power dei nostri campioni nazionali, vivi o morti che siano.

Parlando a vasto raggio di aiuti di stato, che sono un po’ il fulcro di una strana concezione italiana della politica industriale: che facciamo coi famosi tavoli di crisi, prodotto tipico del Mise? Qui vi ricordo la mia tesi: l’Italia ha cominciato a boccheggiare non a causa dell’euro ma dei vincoli europei agli aiuti di Stato, che ci hanno impedito di salvare aziende decotte come invece facevamo negli anni ruggenti, anche con apposite strutture di politica industriale per monatti.

Il fatto stesso che oggi siamo qui a dare i numeri sugli slot aeroportuali e a non comprendere la differenza che esiste tra aziende vitali e profittevoli prima della pandemia e aziende che persistono a essere morte, la dice lunga sulla nostra visione del mondo.

Consulenti a caccia di zombie

Riguardo agli aiuti alle aziende in crisi, tranquilli: Giorgetti ha un piano. Predisporre

[…] una strumentazione efficace per la gestione delle crisi aziendali che si vanno moltiplicando anche per effetto della pandemia. A questo scopo abbiamo avviato le procedure di reclutamento per l’attivazione di una specifica struttura che si avvarrà di competenze professionali di spiccata qualità per supportare le decisioni ministeriali nei tavoli di crisi, e abbiamo disposto lo stanziamento in un fondo che potrà essere attivato per traghettare imprese in temporanea difficoltà verso condizioni migliori, quando vi siano obiettive prospettive di ripresa.

Eccoci: l’Italia è una repubblica democratica fondata sulle consulenze. Per capire se un’azienda finita sul tavolo del Mise non si reggeva in piedi da prima della pandemia, servono competenze di “spiccata qualità”. Vedremo quanti commercialisti di fiducia serviranno ma ci può stare perché, secondo Giorgetti,

[..] le politiche pubbliche hanno oscillato, spesso in maniera contraddittoria e incoerente, tra la dispersione di interventi di sostegno ‘a pioggia’ e scelte dettate da una insufficiente istruttoria fondata sull’analisi delle condizioni e delle compatibilità più generali.

Sicuramente, soprattutto se obiettivo dei tavoli di crisi e dei piani industriali di cosiddetta ripresa devono rispondere solo alla conservazione dell’esistente, nello specifico al numero di posti di lavoro, esattamente di quei posti di lavoro. Da lì consegue il modello Ilva, quello con piano industriale da otto milioni di tonnellate di acciaio, cadesse il mondo, perché quello serve per mantenere i livelli di occupazione. Riuscirà il ministro Giorgetti a trovare le “spiccate competenze” in grado di segnalare che certi piani di recupero sono semplicemente assurdi, più che irrealistici?

Dal posto fisso all’impresa fissa

E tuttavia, non possiamo chiudere questo commento con l’amara considerazione che alcuni animali sono più uguali di altri, oltre che più cari al fattore. Alcuni animali cari alla fattoria leghista sono facilmente identificabili. Ad esempio, Giorgetti è all’opera per

[…] trovare un rimedio soddisfacente alla annosa questione del commercio ambulante che lamenta una condizione di precarietà e per la mancata individuazione di soluzioni praticabili al problema posto dalla cosiddetta direttiva Bolkestein. Non si tratta di eludere o violare la normativa europea ma di considerare alcune peculiarità del commercio ambulante, così come di altre attività radicate per tradizione nelle realtà territoriali quali l’esercizio di stabilimenti balneari, per i quali le consuetudini dei consumatori e la continuità di impresa non sono meno meritevoli di considerazione dell’attenzione alla salvaguardia della concorrenza.

Beh, sì. Qui abbiamo la teorizzazione che un bene demaniale, di proprietà della collettività e dei contribuenti, non deve essere valorizzato economicamente al meglio, perché prima ci sono le “consuetudini dei consumatori e la continuità d’impresa”. Nel senso che, se i consumatori non trovassero ogni anno in spiaggia lo stesso gioviale gestore dello stabilimento, potrebbero ricavarne uno sturbo.

Parimenti, il gestore medesimo deve essere sussidiato dai contribuenti in ogni circostanza in cui corra il rischio di perdere la continuità d’impresa. Dopo il posto fisso, abbiamo inventato l’impresa fissa, in pratica. Tutte le continuità d’impresa sono uguali ma alcune sono più uguali di altre.

Un paese pervicacemente incastonato nell’ambra, dove gli istituti superiori che vanno per la maggiore restano quelli che formano tassidermisti, da prestare alla politica.

Foto: Università di Pavia/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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