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Gaza, come vincere una battaglia e perdere la guerra

L’offensiva israeliana su Gaza sembra terminata, anche se colpi di coda continuano a verificarsi, e l’esercito israeliano sta uscendo dal suo territorio. Stando ai bollettini dello Stato Maggiore israeliano l’operazione sarebbe stata coronata da successo avendo raggiunto l’obiettivo di distruggere tutti i tunnel e catturato una grande quantità di armi. Dunque vittoria delle armi di Tel aviv. Siano scuri che le cose stiano così?

In primo luogo non si sa cosa dia all’esercito israeliano la certezza che siano stati distrutti proprio tutti i tunnel ma, anche se le cose stessero così, cosa garantisce gli israeliani che, nel giro di un anno o poco più, non vengano scavati altri tunnel? Dopo di che, cosa si fa? Si ricomincia?

La verità è che i risultati militari dell’operazione sono modesti, molto modesti. Ed hanno avuto un costo pesantissimo in termini politici.

Nessuno (per lo meno non chi scrive queste righe) contesta il diritto di Israele a difendersi, il problema è quello dell’enorme sproporzione fra l’offesa ricevuta e la reazione ad essa, fra l’entità della posta militare e i costi civili di queste operazioni, fra i pretesi benefici militari ed i certi costi politici.

Questa guerra atroce dura già da 68 anni, sembra che sia abbastanza e sia ora di mettervi fine. Ma offensive di questo tipo hanno solo l’effetto di allontanare ancora la pace incancrenendo la ferita. Ragionando con la logica cinica delle armi, i combattimenti si fanno per mutare i rapporti di forza ed ottenere migliori condizioni per trattare la pace. Ma qui i rapporti di forza ormai sono cristallizzati: i palestinesi non possono essere ridotti a meno di quel che hanno ora e, d’altro canto, non hanno la possibilità di battere militarmente Israele, fosse anche per una singola battaglia ai margini dello scontro e con valenza puramente simbolica. Soprattutto, chi ha da perdere nel confronto è più Israele che i palestinesi.

Gli israeliani sono già al massimo dei rapporti di forza nei confronti dei loro avversari, a meno di non pensare davvero ad un genocidio, cosa che immaginiamo (e speriamo) ripugni la maggioranza della stessa opinione pubblica israeliana. Né si può pensare che offensive di questo tipo abbiano l’effetto di un crollo psicologico dei palestinesi, annullandone la determinazione a combattere: anzi sono benzina sul fuoco (e questo vale sia per le offensive israeliane che per gli attentati di Hamas che, da parte sua, ha responsabilità gravissime per le sofferenze del suo popolo). Come anche non c’è da aspettarsi un crollo del governo di Hamas: anzi l’offensiva ha avuto l’effetto di rafforzarlo per fare fronte contro il nemico.

Dunque, il conflitto, allo stato attuale, ha solo valenze distruttive, può solo diventare una sanguinosissima guerra di logoramento potenzialmente infinita. A chi conviene?

Anzi, lo Stato d’Israele esce indebolito da questa “brillante” operazione militare: persino gli Usa mostrano maggiore freddezza del passato e cresce il suo isolamento internazionale, l’opinione pubblica europea è disgustata mentre si risolleva una preoccupante ondata di antisemitismo, la memoria del genocidio ebraico ne è sporcata e logorata, nei paesi arabi si ridestano gli umori più ostili a Israele rimettendo in discussione l’accettazione della sua esistenza.

Vi sembrano costi politici da poco? E per aver ottenuto cosa? Questa offensiva ha comportato autentici crimini di guerra che non saranno perseguiti solo perché sul banco degli imputati ci vanno i vinti ed Israele non lo è. Ma non è neppure questo l’aspetto più rilevante. Israele deve convincersi a dare meno ascolto ai suoi generali e più ascolto alla ragione: questa offensiva è molto peggio di un crimine, è un errore politico (e rubiamo la citazione a Talleyrand).

E’ comprensibile che le comunità ebraiche di tutto il mondo, come sempre, si siano schierate a fianco di Israele anche in questa occasione, ma sarebbe bene che riflettessero per un attimo su cosa è davvero il “bene di Israele”: passare di battaglia in battaglia coprendosi di sangue e di ignominia morale o cercare una soluzione politica al conflitto? Verrà un giorno in cui si riconoscerà che il vero eroe di questa guerra è stato il diciannovenne Udi Segal che, disertando per non colpire dei civili in una guerra ingiusta, ha salvato l’onore di Israele.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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