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Festa dei Banderesi, quando la tradizione incontra la modernità

Alla scoperta di un evento non solo tipico, ma soprattutto autentico. Ecco la festa di tutti, dove il giovane mette il suo entusiasmo e l'anziano la sua esperienza

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Il Banderese

Tra storia e mito, tra guerre e compromessi, tra confini da disegnare e domini da ricostituire, nasce una festa. Siamo in Abruzzo, nel bel mezzo di una lotta tra Chieti e Bucchianico, e siamo negli anni 1000, ma anche nel 1335, e nel 2014, oggi, quando è ancora visibile il segno del compromesso tra le due città: a dividerli ci sono 60 metri di terra di nessuno che da secoli impedisce loro di confinare.

Nel lontano Trecento, Bucchianico ebbe la meglio su Chieti grazie all'intervento di sant'Urbano che, venendo in sogno al sergentiere, figura principale della festa, consigliò loro di fare una corsa a serpentina, la cosiddetta “Ciammaichella”, la chiocciola in dialetto, per ingannare il nemico e fargli credere che fossero molti di più di quanti erano veramente e farli quindi desistere dall'attaccarli.

E ci riuscirono, facendo sì che i Bucchianichesi avessero la meglio sui Chietini. E la Ciammaichella non solo salvò Bucchianico, ma con il suo moto serpentino portò con sè tutto ciò che aveva trovato nel corso dei secoli, tanti riti diversi tra loro che sono confluiti, e convivono tuttora, nella festa dei Banderesi. Festa patrocinata dalla Commissione Italiana per l'UNESCO e il cui corteo, nel mese di maggio, tanto propizio quanto pericoloso per il raccolto, si dirige in preghiera per rendere grazie a sant'Urbano, protettore dell'abbondanza e del compromesso, in una processione di canti, musica, carri, simboli, spettacoli di armigeri e balestrieri e tanti canestri di fiori di carta colorati.

Tutto ciò che c'è da sapere su questa tradizione mai spentasi ce lo raccontano l'architetto e il massimo studioso della festa Giuliano Di Menna e Guglielmo Urbano Tatasciore, il sergentiere. Quest'ultimo è la massima autorità della festa, la cui carica viene tramandata di padre in figlio, che dirige e coordina i cerimoniali, “Per lui si va e si viene e tutti dai suoi cenni dipendono, fin lo stesso banderese!”. Il sergentiere vestito del suo ramajetto - un mazzolino di fiori freschi - e dell'Arma Santa, mentre il banderese appena citato, eletto pubblicamente a sorteggio tra quelli candidati e che svolge il ruolo di organizzatore della festa, indossa il pennacchio e gli anelli di Sant'Urbano perché “non è importante l'abito, che si evolve nel tempo, ma ciò che sugli abiti viene messo”.

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Il Sergentiere

La grande sfida di oggi é infatti far sì che la partecipazione non sia né una forma teatrale né tradizionalismo spinto, ma che abbia un contenuto: la festa deve continuamente coniugare tradizione e modernità perché, come ci dice il sergentiere, “essere troppo chiusi significa fare delle rappresentazioni vuote, ma, d'altro canto, essere troppo moderni aumenta il rischio di far perdere il vero valore della festa”. Esempio di questa modernità è stato l'inserimento a partire dagli anni '70, al fine di mantenere in vita la festa, di altri carri nel corteo storico delle contrade, come quello della lavorazione del lino, delle cancellate, della tessitura, in aggiunta a quelli tradizionali, ossia il carro del pane, in cui si trasporta anche il quadro di Sant'Urbano, il carro del letto, del vino e della legna.

E poi ci sono loro, le donne, a cui si deve indubbiamente l'80 per cento della festa: sono loro, infatti, che in quei giorni sono in grado di cucinare per diverse centinaia di persone, ma non solo, sono anche in grado di lavarne tutti i piatti a mano. All'interno della festa il ruolo storico assegnato alla donna è quello di consegnare al marito o al figlio eletto banderese gli anelli di Sant'Urbano, configurandosi quindi come una sorta di mandataria. E poi, ancora, è loro il compito di creare innumerevoli cesti e bouquet di fiori di carta in un susseguirsi di forme e colori a dir poco sorprendenti. E il più bel canestro, insieme al più bel carro, verrà premiato durante la festa.

Ma che cos'è oggi la festa e che impatto può avere sulla vita privata e sociale della collettività? È un'esperienza complessa che non è più solo espressione contadina ma si è estesa a tutta la cittadinanza. È sicuramente un momento di socializzazione, e i riti più significativi in questo senso non sono quelli di grande evidenza pubblica, ma quelli più intimi come quello della preparazione del pane o della creazione dei fiori di carta. Ma non è solo questo: la festa, come ci dice il sergentiere, “È una sorta di fotografia che viene dal passato, che ci dice come eravamo e ci da un riferimento su come dovremo essere”.

E Giuliano Di Menna, grazie al suo mestiere, sa bene che un oggetto del passato va trattato con rispetto perché è una testimonianza. Ha imparato il senso della memoria provocata: “Queste cose ci sembrano banali nel momento in cui ci sono, ma nel momento in cui vengono a mancare creano seri problemi e ce lo dicono le società che questa tradizioni collettive non ce l'hanno, come l'America” continua Di Menna “non il tipico, quindi, ma l'autentico, anche se imperfetto”. Certo è però che questo folklore ha un grande nemico, che è l'integralismo: il folklore deve essere opportunità di dialogo.

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I canestri

A questo punto il folklore potrebbe seguire due strade, quella suggerita dalle organizzazioni turistiche e quella tracciata da chi la festa la crea e la vive perché la sente dal di dentro, prescindendo dal credo religioso, ma credendo nel valore della pacificazione e della gioia della socializzazione. “La scommessa è quella di mantenere l'autenticità nella modernità. La chiusura comporta l'auto-fagocitamento della festa che diventerebbe solo una messinscena. Il folklore del futuro non può essere senza ricerca, senza qualità, che è il focolaio affinché questa festa abbia ancora ragione d'esistere”, é questa la promessa per il futuro che ci fa il sergentiere e che noi non possiamo che condividere.

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