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Fenice araba, tasse italiane?

Mentre siamo in più o meno trepida attesa di capire che sarà dell’accordo tra Alitalia ed Etihad, dopo mesi di data room, pre-condizioni, proclami ministeriali, messe in stand-by, via libera governativi a non è chiaro cosa, sinergie lisergiche con Poste Italiane, sulla stampa comincia forse ad affiorare la celebre “quadra”, pur se in almeno due versioni differenti. Proviamo quindi ad ingannare il tempo per capire cosa potrebbe attenderci, soprattutto come contribuenti.

Dai nostri mezzi di informazione, negli ultimi giorni, proviene la notizia che l’accordo con Etihad sarebbe stato trovato attraverso la costituzione di una NewCo, cioè una società sana, a cui conferire un’Alitalia snella, pulita da contingent liabilities come quelle legate a contenzioso pregresso, e con poco debito. Questa NewCo sarebbe partecipata al 51% da Cai ed al 49% da Etihad, per rispettare i vincoli europei, con ingresso della compagnia degli Emirati attraverso una ricapitalizzazione. Sin qui, nulla quaestio. Ma la domanda sorge spontaneamente immediata: la creazione di una NewCo implica quella di una OldCo, o meglio di una bad company. Dove si posiziona quest’ultima, e - soprattutto - come viene finanziata?

Intanto, resta da capire che vogliono fare le banche creditrici (ed in alcuni casi azioniste): sin qui, hanno puntato i piedi per non subire svalutazioni del proprio credito, come invece richiesto da Etihad. Che fare, quindi? Accettare un debt-equity swap, cioè la trasformazione del credito in azioni della nuova (per l’ennesima volta) Alitalia, sperando di recuperare nel corso del tempo grazie alla ipotetica redditività di quest’ultima, o togliere il dente per l’ennesima volta? Se si andasse verso la creazione di una bad company si finirebbe col replicare quanto accaduto nel 2008 con l’operazione Fenice, e addio recupero crediti. Quindi dobbiamo inferire che le banche italiane hanno bevuto l’amaro calice?

Sin qui, si noti, parliamo di una bad company che risulterebbe del tutto esterna al perimetro della “Nuova Alitalia”, e quindi priva di legame societario con essa. Quasi tutti i media italiani si limitano a descrivere questo processo ma non approfondiscono questo punto, che è fondamentale, limitandosi a dire che “c’è l’accordo”. Poiché, con Alitalia, dire che “c’è l’accordo” equivale quasi automaticamente a dire “i contribuenti caccino i soldi”, i sensori di pericolo devono accendersi immediatamente. Ricordate che una bad company, creata tramite conferimento di passività, necessita di avere un attivo (generato da un capitale sociale) per ottenere la quadratura dei due lati dello stato patrimoniale.

Esiste tuttavia una descrizione alternativa dell’accordo, e la troviamo oggi su La Stampa, a firma di Luca Fornovo. Che scrive:

«L’ipotesi su cui stanno ancora lavorando l’advisor finanziario di Alitalia, Citi e lo studio legale Bonelli Erede Pappalardo, prevede la creazione di una newco, in cui far confluire nell’azienda sana, gli aerei, gli slot e i dipendenti che servono. Questo progetto “Araba Fenice” che in parte ricorda l’operazione Fenice, varata dall’allora numero uno di Intesa Sanpaolo, Corrado Passera, non porterà però alla creazione di una bad bank come nel caso dei capitani coraggiosi. Piuttosto la Alitalia-Cai diventerà una holding finanziaria che controllerà il 100% della newco, fino all’ingresso degli arabi. Quando Etihad aderirà all’aumento di capitale spendendo fino a un massimo di 550 milioni si prenderà una quota del 49% di Alitalia e il resto rimarrà ad Alitalia-Cai, la cordata dei capitani coraggiosi. Questa soluzione dovrebbe sostanzialmente essere gradita agli arabi che nei giorni scorsi avevano minacciato di far saltare i negoziati»

Scritta così, l’operazione appare molto differente dal semplice spinoff della parte “malata” dell’azienda. Perché verrebbe creata una holding, da cui si originerebbe la società operativa, “sana” e pulita da incrostazioni. Ora, ammettiamo pure che il personale in esubero finisca a carico della collettività, dopo il rifinanziamento del Fondo Nazionale Trasporti (che dovrebbe servire a ben altro, ma non sottilizziamo): che ne sarebbe dell’eccesso di debito? Posta in questi termini quel debito in eccesso, ipotizzando che le banche creditrici non intendano né trasformarlo in azioni né svalutarlo, resterebbe in capo alla holding. Cosa che sarebbe piuttosto avventata ed autolesionistica, per non usare altre e più calzanti espressioni. Una holding siffatta non avrebbe reddito proprio e per servire il debito dovrebbe attendere che la società operativa controllata, che sta “al piano di sotto”, le mandi risorse attraverso il pagamento di dividendi. Ora, non poniamo limiti alla divina provvidenza, ma al momento appare problematico che la nuova Alitalia possa pagare dividendi in tempi ragionevoli. Soprattutto, se questa fosse la realtà, la bad company sarebbe finanziata dalla NewCo.

E quindi? Quindi una costruzione di questo tipo lascia molto perplessi, perché finirebbe col riprodurre schemi già visti in passato, soprattutto in Telecom Italia: ricordate Olimpia? Bene, questo sarebbe uno schema pressoché identico, nel bisogno di spedire dividendi “al piano di sopra”, anche se in quel caso il peccato originale fu un leveraged buyout che caricò di debito le società operative della catena, ma che in seguito finì con lo strangolare anche la holding.

Perseverare diabolicum? Non ci resta che attendere, ormai dovrebbe mancare poco, come del resto ci diciamo da molti, troppi anni. Ma a naso ci pare esista un elevato rischio che anche questa operazione-Fenice finisca con l’essere ricondotta alla categoria della “ingegneria finanziaria per disperati”. O per contribuenti spremuti come limoni, sempre in nome della socializzazione delle perdite e della privatizzazione dei profitti. Se avremo sbagliato giudizio, ad esempio perché scopriremo che le banche creditrici si prenderanno la perdita senza fiatare e senza oneri per la collettività, faremo molto volentieri ammenda.

Solo un paio di considerazioni spicciole, a piè di pagina: in primo luogo, onore al merito di colui che ha cristallizato per anni una situazione di crisi aziendale conclamata, vendendo agli italiani il Colosseo e non i castelli della Valle della Loira. La seconda è più propriamente una domanda: perché in Italia riusciamo a cristallizzare situazioni di crisi per decenni, mentre altrove vengono superate in tempi decisamente più brevi, e con minore utilizzo dei soldi dei contribuenti? Riflettete su questo punto, la prossima volta che riterrete di accusare un “nemico esterno” per la nostra persistentemente miserrima condizione.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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