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Femminismo universalista o femminismo identitario?

Nei giorni scorsi è stato pubblicato sul sito di Le Point un appello di 55 militanti femministe. Non è il primo e non sarà naturalmente l’ultimo. È però interessante che le sottoscrittrici si presentino apertamente come «femministe universaliste». L’aggiunta di un aggettivo fa inevitabilmente risaltare una differenza.

L’appello è stato diffuso durante la discussione del progetto di legge del governo francese contro il separatismo delle comunità che avversano i valori illuministi della République. Le firmatarie, in nome della comune lotta «contro i fondamentalismi politico-religiosi», apprezzano diversi punti del progetto: dal contrasto alla poligamia e ai certificati di verginità a quello ai matrimoni forzati, nonché l’applicazione sulle successioni della sola legge francese. Ma non mancano le critiche, che si incentrano in particolare sullo scarso interesse per il tema del velo, ritenuto un indicatore «sessista, separatista e di maltrattamenti», e che le madri indossano – mentre è imposto anche alle figlie – durante le uscite scolari.

In calce al documento troviamo alcuni nomi ben noti nel mondo laico: non solo Yvette Roudy, già ministra mitterandiana ai diritti delle donne, ma anche Djemila Benhabib, Nadia El Fani e Zineb El Rhazoui. Non è un caso: sia il progetto di legge, sia l’appello hanno come palese bersaglio l’islamismo. E quindi non è nemmeno un caso se l’aggettivo ‘universalista’ non viene ulteriormente precisato: nel mondo francofono viene oggi ampiamente usato per indicare chi propugna il principio di uguaglianza di ogni essere umano – e quindi di ogni donna. Ma già il fatto che si debba ricorrere a un aggettivo significa che qualcun altro non si riconosce, in tale principio. C’è infatti un numero crescente di donne che preferisce circoscrivere il proprio impegno a un femminismo identitario («africano», «decoloniale» o, ça va sans dire, «islamico»), che spesso prospera sul risentimento e che ama distinguersi da quello che invece ritengono sia un «femminismo bianco».

Ne abbiamo scritto recentemente anche a proposito del Belgio, e degli attacchi (talvolta violenti) che ha subito l’attivista Nadia Geerts per aver criticato il ritorno del velo negli istituti scolastici superiori. Gli attacchi non le sono arrivati soltanto dal mondo musulmano, ma anche dai suoi sempre più numerosi alleati che trova nella sinistra radicale. È una contrapposizione che si registra anche nel Regno Unito, dove Areo (sito diretto da una nota liberal, Helen Pluckrose) ha pubblicato un articolo che prende pesantemente di mira la cultura della giustizia sociale e la sua «femminilità tossica», che ogni tanto sfocia persino in una profonda avversione per i maschi (tutti).

Il problema, enorme, non è soltanto che questa divisione diventa sempre più netta ogni giorno che passa, ma che la faglia attraversa ormai anche la politica e il mondo laico. Vi sono temi su cui si sono creati due autentici fronti: la gestazione per altri, per dirne uno, o quello ancora più scottante dell’islamofobia. Ogni volta che ci si divide, diventa ovviamente più difficile raggiungere obbiettivi comuni. Ma sembra quasi che non ve ne siano nemmeno più, di obbiettivi comuni.

Non è passato molto tempo da quando le grandi battaglie di civiltà venivano combattute senza distinzione di genere, origine etnica e convinzioni filosofiche. Oggi va invece di moda l’ostentazione della propria identità, anche se di nicchia. Senza tenere minimamente conto che, dall’altra parte, ci sono avversari che dell’identità sanno fare, e da millenni, un uso straordinariamente sapiente. La Polonia, proprio in queste ore, ce ne sta purtroppo dando l’ennesimo drammatico esempio.

Non si annunciano purtroppo tempi facili, per chi vuole un mondo in cui la legge sia veramente «uguale per tutti».

Raffaele Carcano

 

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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