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Fallimento, ma non di mercato

Questo governo, come i risparmiatori dovrebbero ormai aver sperimentato nelle loro tasche, ha una ben precisa caratterizzazione orwelliana: l’utilizzo di una neolingua funzionale a sovvertire e pervertire la realtà. Ecco quindi che, dopo il risparmio definito “rendita finanziaria pura”, ora abbiamo di fronte altra definizione assai ideologicamente caratterizzata, per opera del ministro dell’Economia, che evidentemente da giovane ambiva a “servire il popolo”.

La new entry si chiama “fallimento del mercato”, ed è la foglia di fico con cui il governo italiano ambirebbe ad usare i soldi del risparmio postale per far rinascere l’Iri. Per raggiungere questo obiettivo occorre scardinare in sede europea la normativa sugli aiuti di stato, quindi pare che al momento possiamo stare (relativamente) tranquilli, ma è certo che l’assalto continuerà in tutte le sedi e con tutte le argomentazioni ed il brainwashing necessario. Nell’immediato abbiamo la patata bollente, anzi rovente d’altoforno, dell’Ilva, che ha davanti a sé solo poche settimane di vita, utilizzando un prestito ponte di 125 milioni erogato da un pool di banche. Dopo di che, sarà la fine.

E’ necessario intervenire per evitare che il paese perda, con la siderurgia, una componente fondamentale della propria produzione industriale, ma serve anche prendere atto della realtà. E cioè che in questo caso ed in casi simili non esiste alcun “fallimento del mercato”.

Peraltro, l’utilizzo di questa definizione è del tutto fuori luogo, perché si ha fallimento di mercato in presenza di beni pubblici, che sono quelli il cui consumo è caratterizzato da non rivalità e non escludibilità. E questo non è proprio il caso.

Sull’Ilva: ad oggi la Cassa Depositi e Prestiti ed i suoi fondi non possono intervenire, perché possono farlo solo in aziende che non siano in perdita. Motivo per cui servirà fantasia, e non fare troppi danni. Come si leggeva ieri sulla stampa, il governo potrebbe esercitare tale strategia portando uno dei fondi CDP nel capitale di un acquirente italiano di Ilva (si ipotizza Arvedi). E sin qui, idea potenzialmente buona.

Ma ciò potrà avvenire solo creando una bad company ed unagood company, con la prima che finirebbe fatalmente a carico dei contribuenti. Ma quello di cui occorre essere consapevoli è altro: nel mondo, e soprattutto in Europa, esiste una enorme sovracapacità produttiva di acciaio. Quindi molti impianti sono fatalmente destinati alla chiusura ma anche alla delocalizzazione, per motivi di costo.

Oggi, l’Ilva occupa per via diretta 11.000 dipendenti, ed altri 9.000 sono nell’indotto. Chiunque pensi che sarà possibile procedere al ridimensionamento dell’azienda mantenendo al contempo questi organici (anche recuperando gli 1,2 miliardi di “tesoretto” offshore della famiglia Riva), ha un serio problema con la realtà. Che di solito è la radice del fallimento, ma non del mercato.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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