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Eutanasia legale, la battaglia giusta

La legislazione italiana allo stato attuale non considera la vita quale bene disponibile. Mentre da un lato si riconosce all’individuo il possesso esclusivo della sua vita come bene primario che quindi non può essere posseduto da nessun altro ente, a differenza di quanto avveniva in altre epoche e contesti storici e ancora avviene in altre parti del globo (basti pensare allo schiavismo o alla condizione femminile di vero e proprio oggetto posseduto dal maschio di turno), dall’altro si stabilisce anche che nessuno può disporre della sua vita come e quando vuole.

 Non è possibile venderla ad altri, come fosse una proprietà immobiliare, e non è neanche possibile decidere di cessarla così come, ovviamente, non è stato possibile decidere che iniziasse.

L’articolo 5 del codice civile lo dice chiaramente: “gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica , o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”. Si noti l’esplicito riferimento alla diminuzione dell’integrità fisica, a significare che finché non vi sono menomazioni o alterazioni della funzionalità irreversibili è ancora possibile cedere parti del proprio corpo, come si fa per esempio con la donazione del sangue o di organi, o parti di essi, la cui assenza non pregiudica la vita dell’individuo. In ambito penale poi, il principio di indisponibilità del bene vita trova concreta attuazione negli articoli 579 (omicidio del consenziente) e 580 (istigazione o aiuto al suicidio) del codice penale.

Tutto ciò è giusto o sbagliato? Diciamo né l’uno né l’altro, nel senso che se è vero che sarebbe sbagliato consentire a chiunque di abusare in qualunque modo della sua vita, con buona pace della sua dignità di essere umano e il relativo rischio di derive incontrollabili, è altrettanto vero che possono esservi situazioni in cui non si può essere “condannati a vivere” a ogni costo. Anche in questo caso ci si deve porre il limite della dignità umana: se una vita non può più essere vissuta in modo dignitoso, allora dev’essere lecito potervi rinunciare. E dunque, poter disporre del diritto di metterle fine, rendendola cioè disponibile ma per fondatissime ragioni.

Sicuramente le norme in vigore sono anacronistiche, nate in contesti storici diversi e oggi non più attuali alla luce dei mutamenti sociali in tema di diritti umani avvenuti in tempi relativamente recenti. Anche e soprattutto grazie alle istanze della stessa società civile; numerose sono, infatti, le associazioni che hanno fatto dei diritti sul fine vita un oggetto fondamentale, quando non primario, della loro azione. Tra queste vi è l’Uaar, che da decenni si batte per il riconoscimento del testamento biologico quale strumento mediante il quale ogni cittadino può esercitare il diritto riconosciuto dal secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione, quello cioè di poter rifiutare trattamenti sanitari giudicati inaccettabili, anche nel momento in cui non è in grado di esprimersi direttamente. Così come si è sempre battuta per la legalizzazione dell’eutanasia, per la quale nel 2013 ha avviato una raccolta di firme a sostegno di una specifica legge di iniziativa popolare insieme ad altre sigle: Amici di Eleonora Onlus, Associazione Luca Coscioni, Exit Italia e Radicali Italiani.

Le firme arrivarono sufficienti a suo tempo, perfino un 30% in più delle 50 mila necessarie per rendere valida la proposta di legge che infatti fu consegnata a Montecitorio. Purtroppo però quella proposta di legge non è mai stata calendarizzata; quando un parlamento si rifiuta di discutere c’è poco da fare. È comunque stata quantomeno ispiratrice di altre andate a buon fine, a cominciare dalla legge 219/2017 che ha istituito le Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT), che altro non sono che quello che precedentemente veniva definito testamento biologico. Ma è anche presente nella nuova proposta per la legalizzazione dell’eutanasia, stavolta d’iniziativa parlamentare e scaturita da più proposte inclusa quella di iniziativa popolare, e il cui testo base è stato approvato in sede di commissione giustizia alla Camera.

La stessa giurisprudenza ha subito mutamenti importanti nel corso degli ultimi anni. Sembrano tempi ormai lontani – ma si tratta di soli 13 anni fa – quelli in cui la Corte di cassazione rigettava il ricorso contro Beppino Englaro avanzato dalla Procura di Milano, autorizzando finalmente lo stesso Englaro a sospendere l’alimentazione forzata alla figlia Eluana in stato vegetativo da ben 17 anni. Molte altre sentenze si sono succedute nel tempo al punto che è impossibile citarle tutte, ma una va senza dubbio citata per la sua particolare importanza: quella con cui la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sull’incriminazione ex art. 580 di Marco Cappato, reo di aver condotto Dj Fabo a morire in Svizzera, ha sancito la parziale incostituzionalità dello stesso art. 580. E dire che la stessa Corte aveva dato al Parlamento ben 13 mesi di tempo perché colmasse le lacune della legge, limitandosi nell’immediato a emettere un’ordinanza che appariva più come una sorta di sentenza preliminare – tanto che a quel tempo si coniò la definizione di incostituzionalità differita. Ma come già detto più sopra: quando un parlamento si rifiuta di discutere c’è poco da fare, infatti i 13 mesi furono improduttivi.

Proprio di questi giorni è l’ultima iniziativa in tal senso; in tutta Italia, infatti, è possibile firmare per proposte su vari referendum abrogativi, uno dei quali promosso dall’Associazione Luca Coscioni ha come oggetto la parziale abrogazione del suddetto articolo 579 cp. Nel momento in cui si scrive sono state raggiunte le 500 mila firme necessarie, ma c’è ancora tempo fino alla fine di settembre e quindi alla fine le firme raccolte saranno di certo molte di più, anche grazie all’introduzione per la prima volta della modalità di firma online tramite Spid. Il quesito è concettualmente semplice: nella formulazione attuale l’omicidio del consenziente viene punito come reato specifico con la reclusione da sei a quindici anni, salvo determinate circostanze elencate al comma 3 che portano all’incriminazione per omicidio; dopo l’eventuale abrogazione il reato di omicidio del consenziente sparirebbe dal codice penale, mentre per i casi elencati al vecchio comma 3 si continuerebbe a procedere per omidicio.

A prima vista sembra tutto bello, finalmente c’è la possibilità di legalizzare l’eutanasia anche in Italia, che sarebbe anche ora. A uno sguardo più attento però sorgono diversi dubbi. Per cominciare: depenalizzare l’omicidio del consenziente equivale a legalizzare l’eutanasia? Non sembra proprio. Legalizzare vuol dire introdurre una serie di norme che regolano l’esercizio di una facoltà, ma con l’abrogazione tout-court non viene introdotta alcuna nuova norma. Vengono solo rimosse delle parole di significato tutt’altro che marginale. Non è la stessa cosa.

Supponiamo, per esempio, che con un colpo di spugna si cancellassero le norme che attualmente proibiscono la commercializzazione dei derivati da cannabis in Italia. Questo non significherebbe legalizzare la cannabis, sarebbe solo una depenalizzazione del reato che farebbe sorgere diversi nuovi problemi i quali non potrebbero essere risolti facilmente. Sarebbe consentito venderla a persone di qualunque età? Non essendoci una regolamentazione sì, anche a minori perché probabilmente non si applicherebbero le stesse restrizioni in vigore per tabacchi e alcolici. Ci sarebbero dei limiti quantitativi? No, per quelli ci vuole una legge quindi se ne potrebbe vendere qualunque quantità. Si dovrebbe scrivere nella confezione quali sono i livelli di Thc e Cbd contenuti? No di certo, non essendoci una norma a imporlo. Andrebbe venduta solamente in farmacia o nelle tabaccherie? E perché mai, se non c’è una regola a stabilirlo si potrà vendere quasi ovunque, magari dal fruttivendolo. E così via.

Nel caso della depenalizzazione dell’omicidio del consenziente i dubbi riguardano principalmente l’espressione del consenso. In assenza di disposizioni di legge non ci sarebbero di fatto tutele nei confronti delle persone che richiederebbero il trattamento eutanasico, con il rischio che qualcuno potrebbe abusare magari della ricca nonna sulla base di un consenso raccolto con modalità apparentemente verosimili. Non ci sarebbero tutele nemmeno per il personale sanitario al quale verrebbe eventualmente richiesto di praticare l’eutanasia, poiché in assenza di direttive tutto potrebbe essere giudicato lecito ma anche illecito, con tutte le conseguenze del caso. Si dirà: ormai abbiamo le DAT, per chiunque abbia lasciato disposizioni in merito al suo fine vita non possono esserci problemi. Vero, ma con l’abrogazione non si stabilisce implicitamente che l’unico consenso legalmente valido è quello espresso mediante DAT, per quello ci vorrebbe una legge e in sua assenza il consenso potrà essere espresso in svariate modalità. Si dirà ancora: una volta approvato il referendum il Parlamento non potrà non approvare una legge in fretta. Questo è falso, abbiamo già visto ben due volte che il Parlamento sa benissimo essere inerte perfino quando è la Corte costituzionale a chiedergli di muoversi. Anche le modalità e il luogo in cui soddisfare il proposito di morte del malato, che non è neanche detto che sia realmente malato perché non c’è una legge a specificarlo, sono lasciate in una zona grigia. Si potrebbe, per esempio, cagionare la morte di un consenziente anche nel ristretto ambito domestico, con metodi che vanno dal soffocamento all’uso di armi da taglio. Non esistendo alcuna norma a definirne i dettagli tutto potrebbe diventare ammissibile. Forse però non sarebbe del tutto umano.

Proprio la Corte costituzionale, poi, nella sentenza 242/2019 relativa al già citato caso Cappato ha scritto chiaramente che con l’ordinanza di tredici mesi prima aveva (cfr.) «ritenuto, peraltro, di non poter porre rimedio – “almeno allo stato” – “al riscontrato vulnus”, tramite una pronuncia meramente ablativa, riferita ai pazienti che versino nelle condizioni sopra indicate. Una simile soluzione avrebbe, infatti, generato il pericolo di lesione di altri valori costituzionalmente protetti». In buona sostanza e in parole povere, per la Corte il 580 cp è sì parzialmente incostituzionale, ma non è possibile tagliare la parte incriminata perché si rischia di ledere a cascata altri diritti. Anzi, la stessa Corte ha perfino indicato quale sarebbe la cosa migliore da fare: emendare la legge 219/2017 sulle DAT con l’inserimento di passaggi che legalizzino in pratica le ipotesi ammissibili di aiuto al suicidio. Alla luce di quella decisione appare quantomeno improbabile che la Corte costituzionale, nel momento in cui sarà chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità della proposta referendaria in questione, potrà esprimere parere favorevole contraddicendo clamorosamente quanto essa stessa aveva sentenziato solo due anni prima. Considerato quanto sopra c’è da auspicare che non lo faccia.

Del resto perfino quei pochi giuristi che sostengono l’iniziativa referendaria non negano mai che una legge sia necessaria. È chiaro che necessaria lo è, ma proprio per questo non sembra molto sensato bruciare terreno confidando che la politica si dia una mossa. Nel frattempo il terreno rimarrebbe bruciato, non attecchirebbe nulla e non c’è nessuna garanzia che in effetti la politica si muoverà, quantomeno in tempi accettabili. Nel frattempo ci si troverà in una vacanza legislativa, una fase in cui si avrebbe il rischio concreto che il vuoto prodotto tra le pieghe delle norme possa essere sfruttato a fini non propriamente edificanti. Ok, l’eutanasia la vogliamo tutti i laici e perfino molti non laici, ma non a ogni costo. Non a rischio di abusi, o di venire meno allo scopo principale che ci si prefigge: tutelare la dignità dell’individuo.

Massimo Maiurana

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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