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Dobbiamo offenderci meno facilmente e dobbiamo attaccare le cause dell’oppressione alla radice

Il professor Jerry Coyne è un biologo dell’Università di Chicago, noto nell’accademia per il suo lavoro sulla speciazione ma per il grande pubblico è l’autore di Why Evolution is True e Faith vs. Fact (pubblicati in Italia da Codice e Nessun Dogma), e un convinto critico della religione e delle pseudoscienze. Massimo Redaelli l’ha intervistato sulla wokeness e su tanti altri cambiamenti culturali in corso sul n. 1/2021 della rivista Nessun Dogma.

Ora è in pensione, ma non si direbbe: lavora come prima, si sveglia alle quattro del mattino, va al suo laboratorio, e ha un’agenda fitta, nella quale ha gentilmente fatto spazio per una chiacchierata con me.

L’idea dell’intervista è nata mentre sfogliavo il suo blog (che prende il nome dal suo bestseller sull’evoluzione). Non sorprende che sia ricco di immagini di animali, tra cui animali selvatici, gatti (tantissimi gatti), e a volte le anatre che ha notoriamente adottato nel campus universitario (a un certo punto la nostra conversazione è stata interrotta da una telefonata che si è conclusa con «Oggi non gli darò più da mangiare»), ma è anche ricco di saggi critici sul fenomeno della “wokeness”, che probabilmente non è familiare ai nostri lettori italiani, e di cui abbiamo discusso per più di un’ora.

R: Cominciamo dalla cultura pop. In Unbreakable Kimmy Schmidt, Kimmy viene corteggiata al campus da un ragazzo molto sensibile che, prima di baciarla, le chiede di firmare un “contratto di consenso”. Succede davvero?

C: Non si arriva ai contratti legali, ma ci sono scuole (credo che la Brown University sia una di queste) dove è necessario un affirmative consent: per esempio, un ragazzo che corteggia una ragazza deve chiedere «Posso baciarti?», e se lei dice di sì lui può baciarla, ma non può andare oltre. Se vuole anche toccarle il seno, deve chiedere il permesso, e così via (come guastare l’atmosfera…). Se non lo fa può essere accusato di cattiva condotta sessuale. Molti campus hanno un sistema giudiziario imperfetto per punire gli studenti colpevoli di molestie sessuali, un sistema spesso ingiusto nei confronti degli accusati. Garantire che gli standard della prova nei campus universitari siano conformi a quelli del nostro sistema giudiziario è una delle poche cose buone che l’amministrazione Trump ha fatto.

R: Ho anche letto un post su un blog di un professore, in cui afferma che la prima cosa che fa con una nuova classe è chiedere a ogni studente con quale pronome vuole essere chiamato.

C: In realtà è obbligatorio in molti college, mentre in altri è solo una richiesta: direi che accade probabilmente in più del 50% delle classi. (In alcuni college, e questo è abbastanza nuovo, puoi scegliere anche un nome, non so, Mortimer Snerd, e per gli scopi del college devono chiamarti così).

Non credo che chiedere i pronomi preferiti sia qualcosa che deve essere richiesto; per la maggior parte delle persone è solo lui o lei, ma se non ci si riconosce, si può andare dal professore e dire: «Potrebbe chiamarmi così?». Se alcuni studenti lo chiedessero a me, lo farei sicuramente. Il professore può semplicemente annunciare «Se hai un pronome preferito, per favore manda un’e-mail o vieni a trovarmi ed io seguirò i tuoi desideri».

R: In un altro show, The Good Fight, un avvocato nero dice la n-word (“negro”) mentre cita qualcun altro durante una discussione. Il giorno dopo viene convocato dalle Risorse umane e gli viene chiesto di partecipare a un seminario sulla discriminazione razziale. Quanto è realistica una cosa del genere?

C: La n-word è certamente un enorme tabù, la cosa peggiore che si possa dire in America. (Se sei bianco: se sei nero è solo un termine… affettuoso).

Il professor Geoffrey R. Stone, responsabile della policy della libertà di parola all’Università di Chicago, lo usava ogni anno in classe come esempio di qualcosa di offensivo ma legale. Gli studenti neri però si lamentarono, e così ha dovuto smettere.

Nessuna circostanza che io conosca permette di dire la n-word, compreso l’insegnamento di letteratura che lo contiene (come Huckleberry Finn o le opere di James Baldwin), senza essere licenziato o almeno severamente ammonito. Si è arrivati al punto che i ragazzi bianchi che cantano canzoni rap popolari dovrebbero saltare la parola con la “n” quando appare nei testi. Mentre altre parole, come le molte ingiurie per gli ebrei, sono considerate assai meno negativamente.

R: Mi ricorda il caso del professore che, durante una lezione di economia in cui trattava di Cina, disse una parola cinese che suonava un po’ simile alla n-word, e ne seguì l’indignazione.

C: Questo tipo di performative wokeness (dimostrazioni di quanto sei puro perché non indossi i costumi di Halloween sbagliati e non usi termini offensivi, e ti lamenti di entrambe le cose quando le fanno altri) non serve a nulla. Se si vuole porre fine al razzismo, bisogna avere la volontà e il denaro per affrontare le disuguaglianze che limitano le opportunità delle persone fin da giovani, compresa la qualità delle scuole.

R: Lei parla di pari opportunità, ma questo non garantisce necessariamente la parità di risultati…

C: È un dogma della religione woke che se non c’è una pari rappresentanza di genere e razza in un campo o in un ambiente (50% maschile, 50% femminile; 18% nero, 20% ispanico, …) in proporzioni uguali a quelle della popolazione, allora ci deve essere razzismo o sessismo.

La gente deve rendersi conto che le disparità di genere, e forse anche di razza, non sono necessariamente il risultato di pregiudizi, ma forse di preferenze diverse tra i gruppi, in media: abbiamo spiegazioni concorrenti e non ci si può accontentare di una sola, a meno che non si abbiano dati a sostegno.

Per esempio, siamo arrivati al punto in cui se sei una donna o una persona di colore qualificata in cerca di un lavoro, soprattutto nel campo dell’informatica o della tecnologia, è molto probabile che ti assumano perché hanno un disperato bisogno di raggiungere le quote. E anche se sono a favore dell’affirmative action, forse questa soluzione “a parità di risultati” non è ottimale se ci sono diversità nelle preferenze. Ciò di cui abbiamo bisogno è la parità di opportunità, non la parità di risultati.

Penso che le donne abbiano raggiunto il livello di pari opportunità necessarie per la parità tra i sessi (questo non per negare che esista ancora un certo sessismo, ovviamente: l’ho visto con i miei occhi!) La scarsità di donne nell’It è apparentemente dovuta, in linea di massima, alla preferenza differenziale: i paesi che hanno maggior uguaglianza tra i sessi (come l’Europa occidentale e la Scandinavia), dove le donne sono libere di esprimere il tipo di preferenze che hanno per il lavoro, hanno la percentuale più bassa di donne che entrano nella Stem e soprattutto nell’It. In media vogliono andare nelle discipline umanistiche o nelle professioni con interazione umana: è lo stesso in medicina, dove le aree che permettono una maggiore interazione con i pazienti, come la pediatria e l’ostetricia, hanno una proporzione di donne molto più alta rispetto a campi come la chirurgia o la radiologia. Nei paesi poveri, invece, sono più numerose le donne che entrano nella Stem, perché è una delle poche vie per avere una vita migliore.

Da dove viene la preferenza è un’altra questione. Con le donne penso che sia almeno in parte genetico, in base al fatto che tali preferenze iniziano a manifestarsi fin dall’inizio della vita, e possono essere evidenziate anche nei primati come le scimmie rhesus. Credo che ci sia un’eredità evolutiva.

In altri casi, la preferenza potrebbe essere culturale. Per esempio, a volte si sostiene che le organizzazioni di escursionismo/conservazione siano razziste perché pochissimi dei loro membri sono neri, eppure non ne ho mai notato i segni. Penso piuttosto che i neri crescano in grande maggioranza nelle inner cities, e quindi probabilmente non sono molto esposti alla vita all’aperto, e finiscono per non desiderarla. Semplicemente non conosciamo la causa della disparità.

R: Quindi non dovremmo mai lottare per una maggiore rappresentatività delle opinioni delle minoranze? Per esempio, Humanists International ha recentemente richiesto che almeno un membro del consiglio di amministrazione provenga dall’Africa, uno dall’Asia, eccetera.

C: Ci deve essere una qualche forma di rappresentatività, almeno in molti contesti. Per esempio, nel giornalismo e nella scrittura bisogna spingere per ottenere una certa diversità di voci, perché altrimenti si tralascia un’intera area dell’esperienza umana: l’oppressione. Ho passato l’estate a leggere libri sul razzismo di persone come James Baldwin e Ralph Ellison – hanno scritto cose potenti su com’era crescere da nero negli anni trenta e cinquanta: è un intero mondo di esperienze cui non ho preso parte. Quando guido per strada e vedo i poliziotti, non mi spavento come fanno i neri, perché loro vengono fermati più spesso dei bianchi: questo è un dato di fatto.

Ma naturalmente, se la rappresentanza debba essere esattamente nella stessa proporzione della popolazione generale, come il New York Times si è impegnato a fare con i suoi giornalisti, è un’altra questione; e non sono sicuro che debba essere così. Faccio anche notare che mentre i media e le università affrontano con tanta attenzione la rappresentatività di genere e di razza, non si fanno problemi a non rappresentare il 50% delle persone che hanno votato repubblicano o le molte persone che sono cresciute in povertà. Le università e gran parte dei media sono woke, e hanno la loro agenda.

R: Cosa pensa dell’affirmative action alla luce di quanto ha appena detto? Alcuni la criticano per aver effettivamente discriminato gli studenti asiatici, per esempio…

C: Io c’ero quando è iniziata con il busing, e sono stato a favore nel corso degli anni. Lo sono ancora, ma bisogna tener presente che è sempre stato inteso come una soluzione temporanea per ripagare le culture ingiustamente oppresse nella storia dell’America, e che sarebbe andata esaurendosi una volta che le razze avessero raggiunto una certa parità di opportunità.

La diversità obbligatoria non è un bene in sé e per sé. Dire che ci sono modi di pensare neri o ispanici implica che le razze hanno una visione uniforme, e questo è razzista. Piuttosto, l’affirmative action dovrebbe essere esercitata come un modo per raddrizzare i torti del passato.

Ma a sessant’anni di distanza è ancora con noi, per due motivi.

Da un lato, ha creato un’intera burocrazia di “esperti della diversità” (qualcosa come trenta persone per ogni grande università!) il cui lavoro dipende dal mantenimento dell’idea che abbiamo bisogno di affirmative action e di persone che diano una mano alle minoranze. Indipendentemente dal fatto che si verifichi o meno una disuguaglianza di opportunità, questa burocrazia non scomparirà.

D’altra parte, come ho detto, il razzismo è un problema molto difficile che richiede sforzi coordinati e molti soldi da investire nei quartieri a basso reddito. Questo sforzo, che è ciò di cui c’è davvero bisogno per eliminare le disuguaglianze di opportunità, è molto più difficile che dire semplicemente che non si può indossare un certo costume di Halloween, o decidere di cambiare il menu della mensa.

R: Costumi di Halloween?

C: Negli ultimi dieci anni sono diventati un grande flash point in politica. Prendiamo il caso di Erika Christakis e di suo marito Nicholas: erano master [rettore, N.d.T.] e associate master (un’altra parola che non si dovrebbe più usare, perché implica schiavitù…) del Silliman College, una residenza universitaria a Yale. In risposta a un’e-mail della Commissione affari interculturali, che avvertiva gli studenti che sarebbe stato inappropriato indossare cose come i turbanti, ha suggerito loro di usare il proprio “miglior giudizio”, chiedendo: «Non c’è più spazio per un bambino o un giovane per essere un po’ odioso, un po’ inappropriato o provocatorio o, sì, offensivo?». Alla fine, a causa del contraccolpo, ha lasciato Yale ed entrambi hanno dato le dimissioni dal Silliman college.

R: Un po’ come su All Songs Considered, un podcast musicale, ogni canzone di un cantante nero è sempre commentata da un ospite nero. Come se la musica nera potesse essere compresa, apprezzata e commentata solo da persone di colore. Questo sì che a me sembra razzista.

C: Tutta la questione dell’appropriazione culturale mi sembra un completo diversivo da dove dovrebbe andare la nostra attività. Si può pensare a possibili casi di appropriazione culturale in cui si prende il prodotto di qualcuno e lo si usa a proprio vantaggio senza dargli il credito o il denaro che meritava, e questo è il brutto tipo di appropriazione culturale. Ma questo lo si vede raramente: piuttosto, i woke si lamentano dei bianchi che aprono ristoranti messicani, o che scrivono libri su etnie diverse dalle loro.

R: È vero, come sostengono i repubblicani, che i media sono fortemente parziali a sinistra? Se sì, perché?

C: I media mainstream, come il New York Times e il Washington Post, tendono a essere di sinistra; penso che sia perché i media mainstream prendono i loro scrittori dai college, e i college sono fondamentalmente tutti di sinistra (qualcosa come il 90% dei professori universitari sono liberali, contro il 50% della popolazione generale).

E questo, credo, è perché l’umanesimo in genere favorisce le opinioni di sinistra. La destra, dopo tutto, si associa di più alla religione; ma l’umanesimo crede nell’uomo come segno distintivo del progresso, il che rende automaticamente gli umanisti più di sinistra che di destra. I valori che si insegnano all’università non sono valori religiosi: sono valori umanistici. E naturalmente io questo lo approvo – ma ha avuto un effetto di distorsione sui media e su altre organizzazioni che assorbono i laureati.

R: In effetti, a volte sembra che anche le associazioni umaniste siano sempre più woke.

C: La cultura woke è profondamente connessa con le attività antirazziste, e se ci si oppone a essa si viene chiamati razzisti (o islamofobi, o transfobici), epiteti coi quali nessuno (soprattutto i liberali) vuole essere chiamato. Una volta che l’etichetta si è incollata, infatti, è molto difficile da rimuovere.

Nel mio campus ci sono molti studenti conservatori che hanno paura di esprimersi liberamente perché non vogliono essere chiamati razzisti. Ma non tutti i repubblicani sono razzisti, non tutti quelli che si oppongono alla corsa alla transizione transgender sono transfobici, e non tutti quelli che si oppongono ai principi oppressivi dell’islam sono islamofobi.

Viceversa, è possibile essere liberali, essere a favore dei diritti delle donne, dei diritti degli omosessuali e dei diritti delle minoranze senza essere woke: si chiama per esempio liberalismo classico. E se si comincia a imporre la censura, dicendo che la gente non può scrivere certi libri, non può mangiare certi cibi, non può indossare certi vestiti… allora si è oppressivi in un modo che non fa bene alla società.

Purtroppo tutte le società umaniste, compresa l’American Humanist Association, sono diventate così, ed è per questo che non vado più agli incontri umanisti. Vado agli incontri atei: sono molto più divertenti, e non devi camminare sui gusci d’uovo o aderire a una determinata ideologia.

R: Mi ricorda che il mese scorso un avvocato in Italia è stato condannato per aver detto che non avrebbe assunto persone transgender nel suo studio legale, e la sentenza è stata elogiata dalla sinistra (e dalle organizzazioni umaniste). Sono gay, ma preferisco comunque che la gente sia libera di dire quello che vuole.

C: Sono ebreo e sono assolutamente favorevole a che si possa negare l’Olocausto. Quando danno le loro argomentazioni, possiamo respingerle, ma se le censuriamo, si nascondono sottoterra.

Sono d’accordo che si deve poter dire che non si assumerebbero persone transgender. Tuttavia, se hai uno studio legale e non assumi qualcuno perché è un transgender, la questione è diversa: in America questo è giustamente illegale (è discriminazione in base al genere).

Ma questo non significa che tutto il discorso sia “libero” e accettabile secondo la legge americana. Per esempio, non si dovrebbe creare un clima sul posto di lavoro che si configura come offensivo, come fare battute contro le donne o umorismo di cattivo gusto. Gli ambienti aziendali sono sensibili a questo, come penso sia giusto: per tanti anni quel tipo di cultura è stata la regola (si pensi al programma televisivo Mad Men). Allo stesso modo, non si può fare pubblicità falsa o diffamazione.

Tuttavia, sono orgoglioso della mia università perché non abbiamo speech code o trigger warnings. Siamo l’unica università in America in cui è vietato prendere ufficialmente posizione su questioni politiche, morali e ideologiche. Dopo tutte le uccisioni della polizia e il movimento Black Lives Matter, i dipartimenti continuano a cercare di promulgare dichiarazioni come «siamo antirazzisti», «deploriamo la polizia che uccide i neri», «siamo con Black Lives Matter». Tutto questo è contro i principi dell’università.

R: I college sono noti per un sacco di regole volte a evitare che gli studenti si offendano – il che tra l’altro si traduce nella soppressione della libertà di parola, come per esempio quando proteste studentesche hanno impedito di parlare a ospiti “controversi”.

C: L’offesa alle persone non è un criterio legale valido. Se si dice qualcosa che offende le persone, non è un bene, ma non si dovrebbe impedirlo, perché ostacola la libertà di parola. Sono stato chiamato con tutti i tipi di epiteti anti-ebraici, e non mi dà fastidio. Come dice Salman Rushdie: «Nessuno ha il diritto di non essere offeso. Questo diritto non esiste in nessuna dichiarazione che io abbia mai letto. Se ti senti offeso è un tuo problema, e francamente molte cose offendono molte persone». La paura di dare l’offesa è ciò che guida i woke.

Probabilmente mi metterò nei guai per averlo detto, ma mi che sembra che alcune persone vogliano offendersi. Se ti offendi perché un bianco sta leggendo ad alta voce un passo di James Baldwin che usa la n-word, penso che tu sia irrazionale. Comunque sì, un’altra caratteristica dei woke è questa iper-suscettibilità, per cui basta lo sgarbo più minuto. È l’idea del peccato originale, che può essere espiato nella religione, ma non nella cultura woke.

R: Qual è il suo punto di vista sul fenomeno della cancel culture e delle proteste che chiedono la rimozione di statue?

C: È un argomento difficile: come si valuta uno come Alexander Hamilton, che ha fatto tante grandi cose (padre fondatore dell’America, primo segretario del Tesoro, autore di molti documenti) ma che è stato anche proprietario di un paio di schiavi? La cultura woke dice fondamentalmente: se qualcuno fa una sola cosa brutta nella sua vita, non dovrebbe essere commemorato.

C’è una statua di Theodore Roosevelt, per esempio, davanti al Museo americano di storia naturale. Era famoso per le sue spedizioni in Africa e in Occidente. È raffigurato seduto su un cavallo e affiancato da un lato da un indiano americano e dall’altro da un africano. I woke affermano che l’intento era quello di mostrare la sua superiorità sui neri e sui nativi americani; ma la statua in realtà riguarda lui, le sue imprese e la sua collaborazione con la popolazione locale.

Le statue confederate sono tutta un’altra cosa: alcune di esse sono state erette dopo la guerra civile, proprio per cercare di mantenere una cultura segregazionista. Si può sostenere che quelle statue dovrebbero essere rimosse – comunque, preferirei che restassero in piedi, ma con una targa che le contestualizzi; o magari metterle in un museo. Non sono un fan della cancellazione della storia, anche (soprattutto) se è stata una brutta storia, perché abbiamo bisogno di conoscere la nostra storia. Penso sia vero che se si cancella la storia e la si dimentica, si è condannati a ripeterla.

La stessa cosa sta accadendo con le dediche nei campus. All’Università di Chicago abbiamo avuto una grossa discussione su come chiamare la business school: Milton Friedman era probabilmente il nostro economista più famoso, ma la facoltà non accettava l’uso del suo nome perché era un conservatore. Qualcosa di simile accadde all’University College di Londra, con la proposta di rinominare un edificio per laboratori che era intitolato a Galton, che era certamente un eugenista (anche se senza alcun impatto pratico), ma che era anche un grande scienziato.

R: Ha mai paura di essere preso per un esponente dell’alt-right?

C: Non credo che le mie credenziali di sinistra possano essere messe in dubbio: ho votato democratico per tutta la vita; sono stato arrestato per aver picchettato l’ambasciata sudafricana durante l’apartheid; ho fatto molto lavoro contro la guerra negli anni ‘60, sono stato un obiettore di coscienza e mi sono rifiutato di combattere in Vietnam. Non mi sono mosso io verso destra: è una parte della sinistra che si è estremizzata, e nel farlo è passata da progressiva a regressiva.

In un certo senso, la wokeness è un tipo di liberalismo che si è spostato al punto di essere vicino all’ala destra su certe cose – come l’enfasi sulla razza, anche se da una prospettiva diversa.

Per esempio, non sono d’accordo sul fatto che si debbano togliere i fondi alla polizia (ci sono zone nel giro di venti minuti da dove vivo dove non vorrei camminare la sera e ho sentito degli spari); mentre sono d’accordo con programmi di immigrazione come il Daca, ma la retorica incontrollata dei “confini aperti” è troppo ampia.

Non si tratta di proposte della sinistra mainstream, ma credo che la paura dell’estremismo democratico sia stato un elemento che ha guidato in modo sostanziale i voti in queste ultime elezioni. Potrebbe spiegare perché almeno alcune minoranze hanno votato per Trump più di quanto abbiano fatto negli anni precedenti, ma non lo sappiamo ancora. Potrebbe essere stato l’estremismo della sinistra a impedire la prevista “ondata blu” di vittorie democratiche.

R: Allora qual è il messaggio? Come affrontare le tante questioni che ci dividono?

Martin Luther King era famoso per aver detto: «Guardo a un giorno in cui le persone non saranno giudicate per il colore della loro pelle, ma per il contenuto del loro carattere», che pensavo fosse un obiettivo fantastico per cui lottare. Ma ora si è passati completamente al contrario: si presume che le persone di colore siano in un certo senso moralmente migliori dei bianchi, che sono considerati oppressori. L’oppressione dovrebbe essere eliminata, ma essere una minoranza non fa automaticamente di te una persona migliore. È la versione woke del razzismo, ma è comunque razzismo, che divide le persone e considera alcuni gruppi al di sopra di altri.

Se dici «Io non vedo il colore [della pelle, N.d.T.]» il woke risponde «Sotto sotto tutti sono razzisti: hai dei pregiudizi, inconsci e impliciti, ma sei comunque un razzista». Ma anche se fosse vero, questo non è produttivo: da un lato, se diciamo a un gruppo di persone che sono segretamente bigotti, non saranno certo aperti al tuo messaggio, e anzi diventeranno semplicemente più resistenti. E dall’altro lato, non si dovrebbe caratterizzare la gente per quello che succede nella privacy della loro testa, ma piuttosto per quello che fanno.

I woke non ci permettono di suggerire a una persona di colore «Dovresti ascoltare Martin Luther King e non Ibram X. Kendi, perché il primo univa mentre il secondo divide»: non posso dirlo perché sono bianco e si presume che non abbia alcuna competenza in materia di razza.

Non so. Non credo che vietare questo tipo di discorsi sia una buona cosa. Credo che dobbiamo essere più caritatevoli, dobbiamo offenderci meno facilmente e, cosa più importante, dobbiamo attaccare le cause dell’oppressione alla radice, piuttosto che cercare cambiamenti estetici che non causano davvero alcun cambiamento reale nella società né promuovono le pari opportunità.

#wokeness #università #censura #pariopportunità

Intervista di Massimo Redaelli

 

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