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Di Barletta, di laboratori clandestini e di altre storie

Quando il palazzo di Barletta è crollato Antonella, Giovanna, Matilde, Tina e la giovane Maria stavano in un locale da più parti definito “laboratorio clandestino”. Le prime quattro donne lavoravano in questo vano adibito a piccola bottega tessile, Maria era lì per caso quando la forza di gravità non ha posto eccezione alle dinamiche della fisica.

L’idea del “laboratorio” rimanda a un luogo in cui convergono modernità e tecnologia. Ma gli arnesi più all’avanguardia sono quelli di sempre, le mani nude e poco altro per compiere una mansione che altrimenti non potrebbe risultare ascrivibile alla manifattura.

Il termine “clandestino” richiama alla mente ciò che agisce al di fuori della legge. E in effetti le ragazze rispondevano, su tutte quelle possibili, alla legge naturale che impone di portare in tavola qualcosa per sé e per la famiglia. L’altra legge, quella che si studia a scuola, è quella che rievoca una serie di regole complicate e dannatamente distanti dall’impellenza della quotidianità.

Da sempre indisposta verso gli invasori, Barletta – città della Disfida e della Resistenza al nazismo – non è abitata da un’orda barbarica che si rifugia nei sottoscala fatiscenti di palazzi centenari per lavorare a maglia. C’è stato un momento a cavallo tra gli ’80 e i ’90 in cui l’economia del tessile e del calzaturiero ha trovato in questo sud che protende verso oriente il traino di un economia che ha sfamato gli operai ed ha arricchito i padroni. Sembrava l’Eldorado. In realtà era solo la vacua effervescenza del capitalismo nato moribondo. Già da qualche tempo le campagne venivano costantemente strappate all’agricoltura per dare spazio a cemento e vetri. Piccole imprese crescevano rapidamente e in assenza di regole, nella mancanza di una visione imprenditoriale, con l’intento di arraffare tutto e subito e con una certa riluttanza ad accrescere l’economia del territorio attraverso nuovi posti di lavoro. La rapidità con cui si sviluppava l’industria stava bene a tutti, apparati statali inclusi. Il risvolto tragico che questa economia violenta e improvvisata ha lasciato, non ha concesso scampo. Improbabili imprenditori arricchitisi nell’epoca della fortuna sfacciata hanno cominciato ad imbattersi in competitori agguerriti come eserciti, dotati di armi sofisticate e strategie superiori, alimentando un duello tra modelli industriali ben diversi per forma e sostanza. Fine di un’epoca tanto breve quanto ingannevole.

Già all’inizio del nuovo millennio la zona industriale è ridotta a cimitero di capannoni carbonizzati da incendi (che sì, puzzano proprio di bruciato …), da fabbricati preda della parietaria e da edifici rifugio per cani randagi con tetti in eternit assoggettati al caldo torrido dell’estate e all’umidità salmastra dell’inverno. Il fallimento conclamato di questa selvaggia industrializzazione lascia sul lastrico gente con poche competenze e molti debiti. Si torna, allora, a lavorare in piccoli locali con una visione più disincantata e il salvadanaio rotto, calibrando le aspettative sulla scorta dell’esperienza e in base alle risorse. Tra piccolo imprenditore e operaio si stringe un patto imperniato su logiche di reciproca sussistenza. E per sopravvivere con una famiglia sulle spalle e debiti che si ammucchiano, la legge, con il suo carico di indispensabili prescrizioni grava pesantemente sui costi di avviamento ed è l’ultimo dei pensieri.

Padroncini consacrati al mito del self-made man sperano ancora di tornare a rivivere i fasti del passato o, almeno, di risollevare le sorti di annate sfortunate e improduttive. Non mollano e si ripresentano sul mercato, che a sua volta li sfrutta, in una cerchia parallela e industriosa al pari di quella che opera nella legalità (a proposito, chi opera nella piena legalità?) in un dinamismo eslege. Manca l’urgenza di crescere in cultura del lavoro, di adeguarsi a parametri di sicurezza e di garantire la tutela sociale. Il periodo dei soldi facili è finito e l’avanzata cinese, in questa guerra tra poveri, è diventata una vera e propria occupazione. Se uomini dai tratti somatici così distinguibili possono occultarsi allo sguardo dello Stato, anche i nativi possono farlo. Lo Stato è assente, è moralista con chi e quando vuole. Al contrario è presente e remissivo con chi brandisce il bastone del comando con lucido egoismo e inverecondo menefreghismo. Si è passati dalla designazione pressoché unidirezionale di ingenti aiuti statali ingiustificati, alla ciancia pecoreccia nelle assemblee ostaggio di machismo e incompetenza. Una pletora di inattendibili “politici” è sempre disposta a mettere sotto accusa e a forgiare opinioni su tutto. Maestri dell’indignazione destinatari di svariate migliaia di euro di stipendio che commiserano i morti ammazzati di un’appendice del paese che manda avanti la carretta con pochi spiccioli. In altri tempi, un popolo le avrebbe ritenute degne circostanze per una rivoluzione.

Ma per chi lavorano questi terzisti del TAC (Tessile, Abbigliamento, Calzaturiero)? Con chi fanno “affari”? Forse con le imbellettate e sane industrie motore della fiera Padania? O con i distretti industriali delle Marche, nuovo calzaturificio d’Italia? Qualcosa più di qualche dritta è emersa negli ultimi tempi. Va condannato il lavoro precario e sommerso, ma per chi non ha altra scelta risulta un premio ambito in periodi come questi e le indignate cariche dello Stato ne sono al corrente. Quello che per mera distinzione lessicale viene definito imprenditore non è altro che un operario con partita iva bravo a strappare una commessa a suon di offerte al ribasso in un continuo gioco al massacro. Lo Stato è assente, sempre, ecco perché non riesce a intimare un bel niente, ecco perché non riesce ad imporre l’obbligo di rispondere a quanto prescrive. Il principio di legalità, poi, è un concetto che rimanda alla cultura e a modelli di riferimento alti, che mancano. Due su tutti: il delegato a svolgere gli interessi del Paese e chi riveste lo status di guida spirituale. Il pluri-inquisito Berlusconi non solo si è assentato ai funerali delle vittime di Barletta (poiché impegnato in gag al Parlamento), ma non ha neppure proferito parola sul drammatico accaduto; il recentemente indagato per usura monsignor Pichierri, invece, è apparso inabile a partecipare al dolore che ha colpito le famiglie delle povere operaie ed è risultato incapace di lasciare il segno con una predica anonima. Distaccato, ha letto uno scritto asettico e raccapricciante. Sarebbe stato meglio far officiare la messa a chi conosceva le ragazze, al prete della chiesa di quartiere o a un semplice curato.
 
Il lavoro nero è una piaga aperta e putrescente che necrotizza il Paese, ma non è un’esclusiva del sud. Non ha più alcun senso, oggi, credere alla favola che tutti i mali della nazione sono stipati nel Meridione. Dispiace solo non ritrovare motivo di riscatto in uomini del mezzogiorno, condottieri in grado di replicare la dedizione di Giuseppe Di Vagno e l’abnegazione di Giuseppe Di Vittorio, capaci di conquiste sociali scolpite nella pietra. Il sindacato che grazie a loro ha aiutato l’emancipazione di classi lavoratrici soggiogate, oggi, è ridotto ad associazione formale che non appassiona avendo perso credibilità agli occhi dei lavoratori.

Il Presidente della Repubblica, infine. Si scandalizza per il compenso ricevuto dalle operaie nei “laboratori clandestini”. Le nostre operaie si scandalizzano che il capo dello Stato – ex comunista e meridionale – non conosca la loro condizione

La figura delle donne operaie, uccise da quel crollo, diventa solo il pretesto per offrire spot ingannevoli se non sleali. Di queste lavoratrici si parlerà ancora per un po’, ma non troppo. Proprio a Barletta, quando tutto termina in un nulla di fatto, si è soliti dire con rabbia mista a rassegnazione che “tanto il morto è andato al camposanto”. Se l’attenzione sul doloroso accaduto calerà sensibilmente, il teatrino della politica potrà ergere un ulteriore monumento all’ipocrisia, dove attoniti ministri e infimi politici con la pancia piena e la lingua sciolta potranno sentenziare sui “laboratori clandestini” pur avendo stranamente ignorato la loro esistenza. Sarebbe opportuno non dargliene occasione.

Vera rivoluzione, nel nome delle lavoratrici Antonella, Giovanna, Matilde, Tina e nel nome della giovane Maria, potrebbe partire proprio dalla classe dirigente. Da parte di questi amministratori sarebbe necessaria una umile ammissione di manifesta incapacità di osservare, servire e semmai guidare questo Paese. Per quanto attiene il binomio “Verità e giustizia”, chieste a gran voce dopo le esequie, dovrebbe essere il naturale esito di una sciagura che naturale non è.

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