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Dentro le mura, fuori dai diritti?

La vita è come un libro dalle infinite pagine, un romanzo denso di avvenimenti in cui i fatti e i personaggi si inseguono e si intrecciano, capitano e si evolvono, o rimangono sospesi ai margini. Vivere significa leggere, girare pagina senza sapere quel che ti aspetta.

È esattamente quello che è successo a Giuseppe Carnovale, detto Pino, detenuto nella Casa di reclusione di Milano-Opera quando, per uno scherzo del destino, o meglio di un compagno, si è ritrovato iscritto a un corso di scrittura creativa. Nel Laboratorio di lettura e scrittura creativa ha incontrato Silvana Ceruti, insegnante appassionata di poesia, da anni volontaria presso la Casa di reclusione. Ma soprattutto ha contratto una malattia incurabile che gli ha sconvolto l’esistenza: l’amore per la lettura, la scrittura e la poesia. Da allora, assieme agli altri partecipanti ha imparato il potere liberatorio delle parole, capaci di aprire passaggi oltre i muri, di proiettarli con forza verso immensi orizzonti oltre il vuoto.

Col tempo quella sorgente sconosciuta, apparentemente inaridita, sommersa nelle profonde pieghe di uomini che hanno ferito e sono stati a loro volta feriti, ha cominciato a zampillare e quelli che erano solo dei rigoli di acqua si sono via via fatti fiume potente, inarrestabile, necessario. Quelle parole prima sconosciute sono diventate materia plastica, compagne di vita, traghettatrici per un viaggio verso altitudini inesplorate, tra i voli pindarici di chi prova l’ebrezza e il coraggio di lanciarsi in sperimentazioni, ma anche che obbligano a un’immersione sempre più profonda tra gli abissi in cui celiamo le sofferenze, le frustrazioni, la rabbia, i sensi di colpa, i dolori impronunciabili.

Un viaggio di cui portavano ancora le tracce gli uomini che sabato scorso che hanno preso parola, ma forse è più corretto dire l’hanno offerta, nel corso dell’incontro-dibattito in cui è stato proiettato il documentario Levarsi la cispa dagli occhi, di Carlo Concina e Cristina Maurelli. Affascinati dall’esperienza in atto presso il Laboratorio di scrittura e lettura creativa, i due registi hanno tentato di raccontarla, cogliendo l’essenza poetica, ma anche profondamente intima, di quei detenuti che, nel corso delle attività, impietosamente si spogliano a colpi di penna, incontrandosi disarmati, nudi nella loro umanità più sincera.

Al termine della proiezione, sono seguite le domande e i racconti. Domande sulle condizioni di vita dei detenuti nelle carceri italiane, ma anche e soprattutto sulle biografie di uomini e donne che spesso si ritrovano congelati per decenni in un luogo e uno spazio sospesi, senza la possibilità di evolvere, di imparare o di riconciliarsi con se stessi e con il proprio passato.

Guardando quelle facce, ascoltando quelle voci non si può far a meno di pensare al carcere come un luogo contraddittorio, dove la vita spesso si intreccia con la morte, dove la solitudine fa i conti con l’affollamento e la sovrappopolazione. Ma soprattutto il carcere è un luogo carico: carico di storie, di speranze che fanno paura, desideri e debiti insoluti. Un luogo infine – è proprio il caso di dirlo – in cui al di là dei muri, l’esistenza scorre.

Federica Zucchi per Segnali di Fumo

 

PREGHIERA DEL DETENUTO
di Franco Cordisco

Cristo, io sono carcerato.
Avrei più tempo dei certosini per pregarti, ma forse tu solo sai quanto sia difficile pregare per un carcerato.
La ribellione esplode ogni momento, dal più profondo di noi stessi.


È difficile pregare e credere quando ci si sente abbandonati dall’umanità.
Anche per te fu difficile pregare sulla croce e gridasti la tua angoscia, la tua delusione, la tua amarezza: “Perché mi hai abbandonato?”
Perché sulla tue labbra era diverso: tu eri l’innocente.
Noi innocenti non siamo, come d’altronde non lo è nessun uomo sulla terra.
Anche tu fosti un carcerato, un torturato, un imputato e un condannato.
Tu il cui scandalo per i virtuosi di professione fu di canonizzare, senza miracoli e senza processi, un ladro condannato a morte.
A te signore, vittima di tutte le ingiustizie commesse dall’ingiustizia umana, rivolgiamo il nostro grido: “Accettalo come preghiera”.
Tu perdoni e dimentichi, noi però non vogliamo l’elemosina della pietà.
Vogliamo che si creda in noi, nella nostra rigenerazione signore, io non voglio perdere la mia dignità umana per il fatto che sono un carcerato.
Non voglio rinunciare ad essere, voglio credere che almeno tu, il più giusto ed innocente dei condannati della storia, sarai capace di capire le mie lacrime, la mia rabbia.
Tu sei l’unico filo di speranza vera.
Cristo, dammi la fede nella vera libertà che è dentro di noi e che nessuno può strapparci.

 

Foto: Luca Rossato/Flickr

 
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