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Debito pubblico su scadenze brevi: l’uovo di Angeloni

Qualche giorno addietro, sul Corriere, è stato pubblicato un commento di Ignazio Angeloni, economista italiano già membro del Single Resolution Board della Bce, che va controcorrente rispetto al senso comune: allungare la durata media dello stock di debito pubblico, per l’Italia, è controproducente e dannoso per le generazioni future di contribuenti.

Angeloni prende le mosse dal grande “successo” dei collocamenti di debito pubblico italiano a lunga e lunghissima scadenza, con richieste multiple rispetto all’offerta, provenienti soprattutto da investitori esteri. La circostanza, peraltro non circoscritta all’Italia, ha suscitato il patrio orgoglio di molti sovranisti numericamente analfabeti di casa nostra.

Perché dico questo? Perché non ha molto senso sbandierare quasi come fosse un successo da Made in Italy il collocamento di titoli che comunque rendono molto più della media dell’Eurozona. La mia tesi la conoscete, credo: gli investitori esteri amano il debito pubblico italiano perché sono convinti che, alla resa dei conti, resteremo solvibili con qualche bella patrimoniale straordinaria, di quelle che compensano debito pubblico e ricchezza privata. Cosa c’è di meglio che ricevere cedole e plusvalenze dal debito italiano, se non paghi le tasse in Italia?

Certo, c’è comunque una componente di rischio. Un futuro governo italiano potrebbe decidere di ristrutturare il debito, ad esempio. Oppure solo il debito detenuto da non residenti (vaste programme, ed un filo suicida oltre che vagamente sudamericano). Come che sia, esiste un cosiddetto premio a termine sul rischio Italia. Il Nobel, per questa scoperta, non ce lo daranno.

Date queste premesse, il collocamento di titoli del Tesoro a lungo e lunghissimo termine resta comparativamente molto oneroso, per noi:

[…] l’emissione di metà gennaio costa al Tesoro il 2,5 per cento all’anno – qui si comincia a capire l’entusiasmo del mercato – mentre l’ultima emissione francese su analoga scadenza, per esempio, è avvenuta a un tasso dello 0,7 per cento. Decimali trascurabili? Non proprio. Su una durata di 21 anni (la durata effettiva di un titolo con cedole è più breve della sua scadenza), il maggior costo per lo Stato italiano, su 100 euro raccolti, è di oltre 50 euro.

Verissimo, è aritmetica. Ma quindi, che fare? Qui Angeloni si pone contro il senso comune, sostenendo che allungare le scadenze è dannoso, date le condizioni. E lo è per i futuri contribuenti. Per motivare la tesi, utilizza un saggio di Brookings di cui è co-autore Larry Summers, già Segretario al Tesoro di Bill Clinton e rettore ad Harvard, e da quel lavoro estrapola quanto segue:

Summers e colleghi mostrano in particolare che se il governo federale americano (il cui debito ha una scadenza inferiore rispetto a quello italiano), si fosse finanziato interamente a breve termine, il suo debito risulterebbe inferiore di oltre il 10%.

Tutto molto bello ma gli Stati Uniti sono gli Stati Uniti, o sbaglio? Nel senso che la loro affidabilità come emittenti della moneta di riserva del pianeta, la cui morte viene annunciata regolarmente da qualche decennio, resta al momento indisputata, così come il ruolo di cosiddetto safe haven nelle crisi globali. Verrà il giorno in cui tutto ciò cambierà, perché gli imperi non durano in eterno, e probabilmente ciò accadrà in maniera traumatica, con un cosiddetto break strutturale; ma quel giorno, oggi, appare lontano.

Farei anche notare che, in condizioni normali, cioè in assenza di distress creditizio, le curve dei rendimenti sono inclinate positivamente, cioè i rendimenti a lunga scadenza restano superiori a quelli a breve, per incorporare il già citato premio a termine. Ciò tuttavia non mi pare spinga i Tesori nazionali a fiondarsi ad emettere debito in prevalenza su scadenze brevi, o sbaglio?

Quindi cosa suggerisce Angeloni, in sostituzione di scadenze lunghe? Ovvio, le scadenze brevi:

Tutte considerazioni che a mio avviso portano a concludere che in momenti come questo, in cui l’indebitamento a breve avviene a tassi minimi (addirittura negativi, per Paesi ad alto standing), e lo Stato italiano paga costi esorbitanti sulle emissioni a lungo termine, emettere titoli a lunghissima scadenza non è una strategia ragionevole per la politica del debito pubblico.

Questa mi pare la spianata del Turchino. Angeloni è un economista di lungo corso e prestigioso cursus honorum e sa certamente che l’indebitamento a breve termine porta con sé un elevato rischio di reinvestimento. Sia per l’investitore che, soprattutto, per l’emittente.

Che accade quando un debitore non riesce a piegare la traiettoria del suo debito? Che il premio per indebitarsi aumenta dapprima sulle scadenze brevi, e nei casi più gravi la curva dei rendimenti si inverte, cioè il debito a breve costa più di quello a lungo, perché la probabilità di default a scadenza ravvicinata aumenta, peraltro in modo non lineare.

La mia domanda ad Angeloni: può l’Italia, con questa traiettoria di indebitamento, permettersi di accorciare le scadenze del debito? La mia risposta “nasometrica” è negativa. Neppure con la “garanzia implicita” di una patrimoniale straordinaria. Accorciare la durata media del nostro debito pubblico avrebbe un valore segnaletico molto pericoloso, per i mercati, e potrebbe innescare una classica profezia che si autoavvera.

La proposta di Angeloni, a ben vedere, è speculare a quella di quanti invitano ad aumentare l’indebitamento per fare investimenti pubblici, “ora che i tassi sono bassi”. Chi vi dice che, in presenza di debito già elevato, un suo ulteriore aumento non provocherà la fuga degli investitori, facendo crollare i prezzi e schizzare i rendimenti? I mercati non si muovono in modo lineare. O meglio, lo fanno per la maggior parte del tempo, causando a volte delle “anomalie” che poi vengono corrette bruscamente, con rotture del paradigma.

Quindi no, la soluzione non viene dal giocare con le scadenze del debito, credendo di poter ricavare l’immancabile pasto gratis. La soluzione non viene neppure dal credere che una condizione di mercato possa durare indefinitamente, ed essere proiettata nel tempo a condizioni di statica invarianza.

E Angeloni lo sa perfettamente, peraltro. Come è ovvio che sia, data la sua esperienza e competenza. E conosce anche esperienza e competenza dello Stato italiano, si direbbe:

[Le prossime generazioni di contribuenti] non subiranno un aggravio solo se l’onere del rimborso non supererà il ritorno che lo Stato è riuscito a conseguire utilizzando quei fondi, ammesso e non concesso che li abbia investiti proficuamente.
Una prospettiva plausibile? Considerando quanto e come investe lo Stato italiano, non ci conterei.

Ma allora, se questa è la valutazione di credibilità del debitore, la domanda sorge spontanea: perché proporre di spianare il Turchino per dissolvere la nebbia?

Foto: Bankeverband/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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