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Dall’obiezione di coscienza al moralismo legalizzato?

Qualcuno si ricorda di Pietro Pinna? È il 1948 quando decide di rifiutare il servizio militare. Primo a dare pubblicamente una motivazione laica alla sua scelta.

«Faccio noto a codesto Comando di essere venuto nella determinazione di disertare la vita militare per ragioni di coscienza. Trascurando qui di prendere in considerazione nei dettagli le convinzioni dettatemi da ragioni di fede, storiche, sociali e altro, dico che le mie obbiezioni nascono essenzialmente dall’impegno totale assunto sin dalla fanciullezza ad una apertura ideale e pratica a tutte le creature umane. Modi capitali indispensabili di essa apertura: nonviolenza e nonmenzogna, mai limitabili e per nessun motivo. Logica naturale è così la mia spontanea reazione, anzi impossibilità a collaborare con l’Istituzione militare, le cui evidenti manifestazioni prime sono in antitesi con tali mie più profonde ragioni di vita. Mi dichiaro pienamente consapevole del mio atto di rottura con la legge attuale, e resto in attesa d’una pronta decisione al riguardo».

La sua decisione apriva la strada all’obiezione di coscienza in Italia. Ma da allora questa ha cambiato totalmente faccia.

Non solo all’epoca anteporre la propria coscienza a una legge dello Stato comportava delle conseguenze, bisognava pagarne il prezzo (e infatti Pinna finirà in carcere), mentre oggi obiettare alla legge 194 (praticamente unica forma di obiezione di cui si parli) non comporta alcun onere compensativo (mentre comporta l’onere per altri medici, non obiettori, di garantire il servizio), ma – come rileva Chiara Lalli nel suo C’è chi dice no – nel suo significato originario il conflitto non era tra un singolo e un altro ma tra un singolo e l’obbligo di rispettare un divieto o un ordine la cui violazione non avrebbe leso il diritto di qualcuno in senso forte: oggi, invece, «il profilo dell’obiettore ha subìto un vero e proprio stravolgimento ed è frequente che lo scontro sia tra un singolo e un altro: i medici che non vogliono fare aborti per ragioni di coscienza entrano direttamente e personalmente in conflitto con le donne che richiedono quel servizio».

In questa luce appare se possibile ancora più grave la decisione di un magistrato di sorveglianza del Tribunale di Brescia che, nel 2012, non ha autorizzato una donna in regime di detenzione domiciliare ad allontanarsi dall’abitazione per sottoporsi a un intervento di interruzione volontaria di gravidanza. E giunge quindi quanto mai a proposito la sentenza con cui, in questo mese di febbraio, la Corte di Cassazione ha confermato la decisione del Consiglio superiore della magistratura, che aveva censurato la condotta del magistrato.

La toga aveva inizialmente sostenuto che non c’erano i presupposti per accogliere la richiesta della donna, escludendo che l’interruzione di gravidanza potesse rientrare tra le indispensabili esigenze di vita che consentono di allontanarsi dal luogo di detenzione. Per poi, di fronte alla reiterazione della richiesta, chiedere che il fascicolo fosse rimesso ad altra sezione, per obiezione di coscienza. Ma, come ha chiarito la Cassazione, la nozione di indispensabili esigenze di vita non va intesa solo in senso materiale ed economico, bensì tenendo conto della necessità di tutelare i diritti fondamentali della persona, tra cui rientra la libertà di scelta e di autodeterminazione della donna. La scelta di ricorrere all’aborto, si legge nel dispositivo, è «un diritto personalissimo che non tollera limitazioni a causa dello stato di detenzione».

E quanto al richiamo all’obiezione di coscienza? Improprio, secondo la Cassazione.

Improprio e scandaloso. Aggiungiamo noi.

Ingrid Colanicchia

 

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