• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

Home page > Attualità > Dai giri a "patrunu" nelle "puteche" del Salento, al "binge drinking" o (...)

Dai giri a "patrunu" nelle "puteche" del Salento, al "binge drinking" o bevuta compulsiva

Non c’è che dire, a cavallo di più generazioni, è sempre esistita una certa dose d’imprevedibilità nel corso delle cose e, in particolare, nell’evoluzione delle abitudini e dei costumi. E però, giammai, il fenomeno ha evidenziato sviluppi, implicazioni, rischi, conseguenze, del livello di accentuazione presente e lampante oggigiorno.

Fino alla metà del secolo scorso, nei piccoli centri del Salento, il bar, o caffè, non si conosceva per niente, solo nelle località più grandi era dato di scorgerne qualche insegna.

Tuttavia, nel solco e secondo i canoni della sana civiltà contadina, all’epoca predominante, la gente, pressoché indistintamente, soleva collocare in seno all’alimentazione, spartana e nello stesso tempo equilibrata e efficace, anche il consumo del vino: fa buon sangue, tonifica i muscoli di braccia, gambe e spalla, difende dal raffreddore e dalla tosse, si credeva e sosteneva.

Se non aveva a disposizione propri “cippuni” per produrre direttamente la quantità di bevanda necessaria da un’annata all’altra, ogni famiglia acquistava tini di uva dal Brindisino o dalla zona dei Paduli, verso il Capo di Leuca, vinificando poi i grappoli, attraverso la “stumpatura” con i piedi, nel palmento pubblico del paese.

In ultima analisi, si riforniva, presso proprietari di vasti vigneti e/o pseudo grossisti enologici, di alcuni ettolitri del prodotto. Quel paio di bicchieri, fra i sorsi assunti a canna dalla bottiglia portata appresso per la giornata di lavoro nei campi e il calice a tavola, la sera, rappresentava un rito, una sacralità per anziani, adulti e giovani.

Alle anzidette bevute quotidiane campagnole e domestiche, per i compaesani capo famiglia, si aggiungeva, la domenica pomeriggio e in occasione delle feste, l’accesso e la sosta, fra amici, all’interno dell’esercizio di mescita, o “puteca”; dal bancone dell’oste, o “puticaru”, scivolavano di tanto in tanto sui tavolini di legno quadrati, di norma per quattro avventori, contenitori in vetro da un litro o due, insieme con la guantiera di bicchieri: preferibilmente, rosso e, talvolta, bianco.

Fra scambi di notizie inerenti al comparto agricolo, intorno al clima, circa il ménage delle famiglie, si riempivano e svuotavano calici con la sana e genuina bevanda.

L’unica “esagerazione” consisteva in saltuari giri di “patrunu”, con la designazione, di volta in volta, di un dominus, giustappunto un padrone, il quale teneva davanti a sé il servizio del “puticaru” e assegnava il consumo agli occupanti del tavolo, a sua assoluta e esclusiva discrezione.

In tal modo, poteva succedere che, a rotazione, qualcuno finisse col bere in eccesso, avveniva qualche sbronza, intera o mezza, ubriacatura di compagnia, con la conseguenza, per il preferito, del rientro a casa a passi lenti, se non proprio traballanti, in ogni caso accolto sulla soglia, con naturale e amorevole premura e comprensione, dalla moglie.

La ciucca, maturava e passava con discrezione fra le mura domestiche, con l’ausilio di un pesante sonno, fino all’indomani, allorquando il protagonista, beneficiato particolarmente durante la sera precedente alla “puteca”, doveva aver ripreso in pieno le forze e affrontare le fatiche nei campi.

Queste le umane vicende, nell’almanacco 1950, diffuse intorno al prodotto vino. Nessun’altra bevanda alcolica, una bottiglia di “spirito” allo stato puro si acquistava nelle ricorrenze (matrimoni, battesimi), allo scopo di preparare, in casa, artigianali liquori con l’aggiunta di acqua, zucchero e piccole dosi di essenze aromatiche, in flaconcini reperiti nel negozio d’alimentari.

Anche oggi il vino è presente, svolgendovi una parte di rilievo, in seno alla collettività, nell’ambito dell’alimentazione e dei consumi in genere.

Ma, è un altro volto, una dimensione agli antipodi, l’assunzione cadenzata, la moderazione, l’eccesso saltuario e comunque ragionato, hanno ceduto il posto alla moda dell’impulso, ad una sorta di bramosia e avidità concettuale e mentale, a una sfrenata corsa verso la generalità delle bevande alcoliche, non del vino soltanto.

Realtà maggiormente visibile e stravolgente, appare completamente invertita la platea degli attori, il ruolo di protagonisti più vivi e vivaci nel consumo è compiuto dai giovanissimi e anche dai ragazzi e ragazzini. A qualunque ora del giorno.

Secondo le statistiche, le nuove leve iniziano a bere ad appena 11 anni, tre adolescenti su quattro, d’età compresa fra i 14 e i 16, arrivano tranquillamente ad ubriacarsi.

Infatti, si leggono e si sentono, frequentemente, casi d’incoscienti, di entrambi i sessi, i quali finiscono conciati male, costretti a ricorrere a cure d’emergenza per evitare drammi devastanti.

Essere testimoni o spettatori è, senza dubbio, un esercizio più semplice rispetto a un altro impegno che dovrebbe mirare ad appurare le ragioni, i perché degli scivolamenti, delle tendenze modaiole, prevalenti e pericolose.

Sarà forse stato l’allentamento delle briglie in funzione di guida, la rarefazione della vicinanza e delle prediche da parte dell’elemento adulti? Ovvero, la smisurata crescita d’importanza della fraintesa scuola di vita fra pianticelle in crescita e, perciò, ancora fragili?

Dalla fase dell’idolatria all’indirizzo dei capi d’abbigliamento griffati (si ha memoria dei cosiddetti paninari?), al culto irrinunciabile dell’universo di cellulari e dintorni, al consumo all’impazzata di vino e di altri pericolosi miscugli alcolici: tutt’altro che un progressivo sentiero di sana formazione e maturazione, di crescita equilibrata, per la maggior parte di figli e nipoti dell’oggi, per tanti che saranno, domani, al nostro posto.

 

 

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità