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Dai Peloritani alle Prealpi Venete, via Brianza: piccole storie, visioni e suggestioni di un credente, già nomade per servizio, comune osservatore di strada

Nel 1975, in pieno svolgimento del mio lungo e articolato giro d'Italia lavorativo, feci, anzi rifeci tappa nella fascinosa e solare città di Messina (vi ero già stato dal 1966 al 1969), per assumere l'incarico di condirettore della locale filiale della banca in cui prestavo servizio, al posto di un collega d’origine palermitana, il quale, prossimo al pensionamento, andava contestualmente a rientrare a casa sua, nella magnifica capitale isolana.

Il predetto, aveva invero alle spalle altri trasferimenti, in sedi al di fuori della Sicilia, fra cui uno a Taranto e, in tale ultima località, aveva, a suo tempo, incontrato e trovato la fidanzata, poi divenuta sua moglie.

Qualche anno dopo, arrivò, per me, un ulteriore ennesimo spostamento, con un nuovo incarico; per la precisione, da Messina, passai a Monza, capoluogo della Brianza, che gode fama aggiuntiva per la Regina Teodolinda, la Corona Ferrea e il Gran Premio automobilistico di Formula 1.

Iniziò, in tal modo, l’ampia stagione della mia permanenza in Lombardia, sia pure con una circoscritta parentesi operativa a Roma, e, a un certo punto, i miei compiti furono estesi a funzioni di gestione e sovraintendenza su rapporti d'affari, di carattere fiduciario, intestati a grandi gruppi aziendali, aventi sede non solamente in Lombardia, ma anche nelle altre regioni del Nord Est.

Cosicché, di tanto in tanto, mi capitava di spostarmi, per uno o più giorni, al fine di avviare o sviluppare contatti e opportunità di lavoro con controparti che si trovavano, giustappunto, fuori piazza rispetto alla mia sede stanziale e, fra esse, ve n’erano alcune stabilite a Padova e dintorni.

In pratica, all’inizio per prevalenti motivi di servizio, la città del Santo divenne in certo qual modo familiare, mi ci recavo con una discreta frequenza.

Da subito, in quella sede della banca, ebbi modo di conoscere una giovane collaboratrice che, guarda caso, era soprattutto nipote del collega palermitano da me sostituito a Messina, un legame di parentela scaturito dal già ricordato matrimonio del medesimo con una pugliese della città dei due mari.

Nipote dell'amico a parte, con correlati scambi di cordialità fra corregionali, giunse presto a crearsi dentro di me, gradualmente ma decisamente, un sodalizio di ben differente genere, sotto forma di un’intensa consuetudine d’attrazione, fede e credo, nei confronti dell’autentico e prioritario simbolo della bella e dotta città veneta, ossia il suo Protettore, il Taumaturgo col giglio, noto e venerato, forse a livello di primo posto, in tutto il mondo cattolico.

Calandomi nel luogo della mia presente residenza da pensionato, Lecce, rivedo le grandi decorazioni all’interno del cupolone della Chiesa di S. Antonio a Fulgenzio, raffiguranti i miracoli della genuflessione della mula e della predica di S. Antonio ai pesci. E, ancora, mi tornano alla memoria le seguenti strofe devozionali in dialetto salentino:

Sant' Antoni, meu bitegnu,

tuttu chinu te santità,
tritici crazzie faci lu giurnu:
fammene una pe' carità.

Falla prestu e nnu tardare

ca si santu e la poti fare;


e cu la volontà te Ddiu
tispenza crazzie, Sant'Antoni miu!

Riprendendo il filo del discorso, mai che saltassi un’occasione di trasferta a Padova senza trovare lo spazio o una minuscola parentesi, qualunque fosse l'ora, per visitare la Basilica del Santo, per un passaggio, rapido ma sempre intenso, accanto al sito dove riposano le sue spoglie.

Un sussulto e una progressione in termini tanto naturali, spontanei e forti, da indurmi, al di là e in aggiunta rispetto alle circostanze di lavoro dianzi citate, a muovermi, in ordinarie mattinate di sabato o di domenica, dalla mia abitazione lombarda per sfrecciare sull'autostrada verso est, verso il mio speciale “Amico”, per un saluto, un semplice contatto con lui.

E, ogni volta, nel silenzio del viaggio di ritorno e del rientro domestico, mi sentivo, dentro, pienamente appagato; più precisamente, avevo quasi la sensazione che, prima, mi mancasse qualcosa e che, successivamente, grazie alla visita da pellegrino, la medesima carenza si tramutasse in presenza completa, viva e operante nella mia mente, nel mio animo e intorno a tutta la mia personale sfera di suggestione.

Pur trattandosi, chiaramente, di sentimenti individuali e riferibili all’interiorità esclusiva, il rapporto intenso stabilito con il Santo originario di Lisbona, ha gradualmente finito col propagarsi, coinvolgendo cioè mia moglie e i miei figli: tuttavia, di quest'ultimo aspetto e processo, lungi dal pensare di conferirmi alcun merito, ho attribuito la formazione e lo sviluppo sempre ed esclusivamente a Lui.

Col trascorrere degli anni, alla fase lavorativa, dapprima abbinate e poi in sostituzione, si sono susseguite a decine le sequenze annuali delle mie cure di fango terapia nel comprensorio dei Colli Euganei contermine a Padova, anch’esse arrivate a porsi, indistintamente, alla stregua di puntuali occasioni per rinfocolare il particolare rapporto, morale e ideale, con Antonio.

Anche quest'anno, nell'attuale, purtroppo piovoso, periodo novembrino, sono atterrato sotto i Colli Euganei per le mie cure, ma, tra le prime azioni del ritorno in Veneto, ieri ho immancabilmente avvertito il bisogno di rivedere Lui.

Al solito, la discesa dal pullman a Prato della Valle, il grandioso largo cittadino per antonomasia, che, in quest’ultimo passaggio, ho potuto gustare, fra il pomeriggio e il crepuscolo, nelle sue peculiarità d’autentica bellezza e fascino, sgombro da baracche e banconi, dei più svariati generi, che, sovente e specie di sabato, purtroppo lo invadono e deturpano, per soddisfare cascate di smanie d'acquisto, dell’utile e soprattutto dell'inutile, per opera di foltissimi e forsennati nugoli di compratori.

Unica presenza, diciamo così, innaturale, una piccola giostrina con le sue luci multicolori, a beneficio di gruppetti di piccoli, che, ad ogni modo, non guastava la scena.

Un attimo avanti d’imboccare il breve rettilineo con i portici in direzione della basilica, ho istintivamente rivolto lo sguardo verso l’altra vicina grande chiesa dedicata a Santa Giustina, che copre tutto un lato del Prato e, muovendo appena gli occhi, non ho potuto fare a meno di cogliere, per un fugace intermezzo, le adiacenti palazzine ad uso residenziale-militare, al cui interno, almeno alcune decine d'anni fa, dimorava la predetta nipote del collega di Messina e Palermo, la quale aveva sposato un ufficiale dell'esercito. Un gesto, detto ultimo, assolutamente non pensato, estemporaneo, a testimoniare semplicemente la continuità di un ricordo lontano.

Digressione esauritasi, pochi giri del cronometro e, quindi, l'ingresso nella méta del mio “viaggio” dedicato, un ambiente tanto raccolto quanto, ormai, resosi familiare, la consueta sequenza di passi verso il preciso e determinato obiettivo della visita, una sintesi di raccoglimento giusto in un punto.

Tuttavia, nell'occasione appena vissuta, ha preso corpo un grande cambiamento, un assoluto inedito rispetto alle decine di similari circostanze pregresse.

Difatti, il fulcro del contatto da vicino era sin qui stato, sempre, il momento del posare brevemente la mano destra su quella parete di marmo bruno, mentre, durante l’ultima fresca visita, non una solamente, bensì entrambe le mani sono istintivamente andate a posarsi, restando ferme a percepire e vivere, attraverso palmi fiduciosi e speranzosi, quel contatto materiale, freddo nella mera apparenza, ma insieme caldo e rassicurante, con il lato del prezioso contenitore.

Non v’è dubbio, almeno così io sento, che l’improvviso cambiamento sia stato originato da una precisa ragione, connessa con un particolare stato d’animo. Però, in proposito, ritengo giusto chiudere qui.

 

 

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