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Chiesa e pedofilia: il caso Spotlight

Il 18 febbraio è stata la data ufficiale di uscita in Italia del film Il caso Spotlight (Spotlight), diretto da Tom McCarthy. Proprio in Italia la pellicola era stata presentata, fuori concorso, in anteprima mondiale in occasione della 72a edizione della Mostra del Cinema di Venezia, dove la giuria nominata dall’Uaar gli ha assegnato il Premio Brian 2015. Recentemente il film ha vinto il premio Bafta per la migliore sceneggiatura originale e risulta attualmente candidato a sei premi Oscar, tra cui quello per il miglior film.

Nonostante si tratti di un film storico, narrante vicende realmente accadute, allo stesso tempo risulta quanto mai attuale visti i continui aggiornamenti in tema di pedofilia ecclesiastica.

Spotlight” era il nome del team di giornalisti del Boston Globe che quindici anni fa, a Boston appunto, indagarono sulle dimensioni del fenomeno nella diocesi della città americana, partendo dalle denunce già presentate da alcune vittime nei confronti di singoli sacerdoti. Nel prosieguo dell’inchiesta emerse un quadro inquietante non tanto per il numero dei sacerdoti coinvolti (oltre 70), quanto per un aspetto che diventò poi centrale nell’inchiesta stessa e determinante per il suo successo: il ruolo dell’istituzione ecclesiastica.

Il giornale intuì che focalizzando l’attenzione sul reato individuale non si sarebbe andati molto lontano. Sarebbe pur sempre stata la notizia di un reato, o di più reati simili ma sempre con vittime e carnefici, con questi ultimi unici responsabili delle proprie azioni. Occorreva puntare in alto, perché un fenomeno di così grandi dimensioni non poteva essere ignoto ai piani superiori dei palazzi vescovili. In effetti così era. Anzi, era anche peggio, perché non solo la diocesi sapeva, e non solo tentava in tutti i modi di coprire i casi di abuso forte della sua influenza, peraltro riuscendoci egregiamente, ma venne fuori un vero e proprio sistema globale, sottoposto a direttive provenienti direttamente dal Vaticano, che garantiva sostanzialmente l’immunità ai sacerdoti coinvolti, di fatto incentivando gli abusi sui minori.

Quell’inchiesta ottenne il premio Pulitzer e da quel momento le tessere del domino cominciarono a cadere una dopo l’altra, investendo le istituzioni clericali di varie nazioni: Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Irlanda, e così via. Ovunque saltarono evidenze della politica messa in atto per decenni dal Vaticano che potremmo definire molto semplicemente “lavaggio casalingo delle tonache sporche”: i clerici coinvolti venivano sottratti alla giustizia e allo scandalo semplicemente trasferendoli, a volte in altre parrocchie, permettendogli di continuare a lavorare, altre volte in conventi e monasteri, o comunque lontano dal contatto con la gente. Come raccontato in un altra pellicola in uscita in questi giorni: Il club (El club), di Pablo Larraín, vincitore al Festival del Cinema di Berlino nel 2015 dell’Orso d’argento.

Naturalmente anche in Italia sono stati documentati numerosi casi, ma non c’è ancora una percezione del fenomeno per quello che è realmente, come invece c’è in altre nazioni. La tendenza è sempre quella di puntare artatamente l’obiettivo sull’individuo sostenendo che comunque il fenomeno non investe solo il clero e protestando che, anzi, è solo quando il reo è un sacerdote che la notizia suscita clamore. È vero che non sono solo i sacerdoti ad abusare dei minori, peraltro in tutte le categorie di persone che lavorano a contatto con i minori il fenomeno risulta ovviamente più marcato, ma il punto è un altro. Le associazioni degli educatori, così come quelle di tutte le altre categorie “a rischio”, non cercano di insabbiare i casi di pedofilia in cui sono coinvolti i loro associati, e non li trasferiscono altrove continuando a lasciarli in contatto con minori. Lo fa la Chiesa, che ha sempre sostenuto come un mantra l’esistenza di una “emergenza educativa” allo scopo di proporsi, e proporre quindi i suoi funzionari, nel ruolo di agenti morali, per cui non dovrebbe stupire che i preti siano più esposti di altri alla disapprovazione pubblica.

Senza contare il fatto che in Italia, oltre a valere le stesse direttive Vaticane che valgono nel resto del mondo riguardo al mantenimento della riservatezza sui casi di abusi, vige un particolare privilegio clericale introdotto con gli accordi di revisione concordataria del 1984. Tale privilegio è contenuto nel punto 2.b del protocollo addizionale che recita: “La Repubblica italiana assicura che l’autorità giudiziaria darà comunicazione all’autorità ecclesiastica competente per territorio dei procedimenti penali promossi a carico di ecclesiastici”. In pratica, da un lato lo Stato è tenuto a informare il supe­riore quando indaga su un eccle­siastico, e dall’altro quel superiore è tenuto a non informare lo Stato di ciò che sa in virtù delle regole interne della Chiesa.

Di tanto in tanto arrivano dichiarazioni di condanna da parte di vescovi e cardinali, quindi dall’istituzione a monte, che però poi non si traducono in nulla di concreto, lasciando di fatto il tempo che hanno trovato. Lo stesso Bergoglio, campione indiscusso delle dichiarazioni a forte impatto, annunciò due anni fa un deciso giro di vite con l’istituzione di un’apposita “Pontificia commissione per la tutela dei minori”, organo avente come scopo un servizio di consulenza per diocesi volto alla prevenzione degli abusi. Dalla descrizione si presenterebbe pure bene, fatto sta che di recente uno dei suoi componenti, Peter Saunders, che è anche stato vittima di abusi, è stato licenziato dopo aver criticato la politica protezionista del cardinale australiano Pell. Davvero uno strano modo di tutelare gli abusati, somiglia più all’ennesimo sistema per tutelare piuttosto gli abusatori.

A minare la credibilità della politica vaticana è arrivata pure la notizia di una guida a uso dei sacerdoti, redatta dal vescovo e psicoterapista francese Tony Anatrella, in cui risulta scritto che la denuncia di notizie di abuso alle autorità civili «non è necessariamente un dovere dei vescovi». Notizia sicuramente dirompente, tant’è che lo stesso Vaticano ha subito cercato di metterci una pezza attraverso la stessa pontificia commissione di cui sopra, dichiarando che al contrario il vescovo ha la «responsabilità morale ed etica di denunciare gli abusi […] alle autorità civili». Eppure non è solo Anatrella a dire questo genere di cose, prese di posizione simili arrivano di continuo. Ad esempio recentemente lo ha detto Paolo Romeo, ex arcivescovo di Palermo.

Ancora oggi vale il principio seguito dal team Spotlight: il singolo reato conta relativamente. Quasi tutti concordano nella condanna del pedofilo, sia esso un prete, un insegnante, un allenatore o altro, e hanno ragione a dire che comunque non va condannato in quanto prete ma in quanto pedofilo, come tutti gli altri. Bisogna piuttosto far prendere coscienza del fatto che nel caso dei sacerdoti c’è una specifica responsabilità dell’organizzazione alle loro spalle. È questo che bisogna fermare, il resto vien da sé. Come già fatto altrove, principalmente negli Usa dove il capitolo dei risarcimenti alle vittime è ormai diventato il principale nei bilanci diocesani, occorre accertare le responsabilità dell’ente parallelamente a quelle del reo. Forse in questo senso qualcosa si sta muovendo, come nell’attuale caso dei carmelitani di Pietrasanta (LU) che rischiano il processo insieme al loro confratello pedofilo. Magari bisognerebbe anche fare in fretta, giusto per evitare che il reato finisca prescritto e che la diocesi si faccia beffe della vittima, come quella napoletana di Sepe ha fatto con un’offerta di risarcimento ridicola: 250 euro.

Massimo Maiurana

Questo articolo è stato pubblicato qui

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