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Che cosa succede al processo contro Mimmo Lucano? La difesa restituisce il suo senso all’azione pubblica dell’ex-sindaco

L’avevamo detto nell’ultimo report: dopo le richieste di pena scioccanti della pubblica accusa, che per Lucano chiedeva quasi 8 anni, toccava al collegio di difesa riconciliare la Riace laboratorio politico dell’accoglienza e integrazione, che tanti hanno descritto e apprezzato, e la Riace progetto criminale descritta dal PM. 

di Comitato Undici Giugno-Milano - Giovanna Procacci


(Foto di archivio Pressenza)

Gli avvocati Giuliano Pisapia e Andrea Daqua non si sono sottratti al compito e nelle loro conclusioni difensive, presentate al tribunale di Locri il 25 settembre, nel chiedere l’assoluzione piena per Mimmo Lucano hanno di fatto sollevato le principali questioni di senso che questo processo si è trascinato appresso per più di due anni, senza riuscire a risolverle.

Prima questione: l’incerta distinzione fra irregolarità amministrative e reati penali. Nel procedimento amministrativo conta il carattere oggettivo dell’eventuale irregolarità rispetto alla norma e della responsabilità formale di chi firma un atto. Nel penale invece, ha detto Pisapia, è indispensabile prendere in conto anche l’elemento soggettivo: la persona che avrebbe commesso l’irregolarità, i suoi obiettivi, le circostanze concrete in cui ha agito, ecc. Insomma, bisogna partire dal considerare chi è Mimmo Lucano e non, come faceva il PM nella sua requisitoria, partire dalle imputazioni ipotizzate in questo processo per ricostruire a ritroso tutto il suo agire come criminale. E bisogna valutarne l’azione nella concretezza delle condizioni in cui si è trovato ad agire. Ora, Lucano è una persona che ha messo la propria vita a disposizione degli ultimi, è sempre stato povero, ha destinato all’accoglienza anche i proventi dei premi che gli sono stati attribuiti. Soprattutto, è qualcuno che ha lavorato in modo molto concreto per evitare il disastro che si profilava per il paese di fronte all’emergenza migranti e per far fronte a un problema che è di tutti, se vogliamo rispettare gli obblighi costituzionali di solidarietà.

Anche Daqua ha insistito sull’importanza dell’elemento soggettivo e sulla personalità di Lucano, che ha definito “incompatibile con il perseguimento dell’interesse personale”, come emerge chiaramente dalle risultanze istruttorie. Nelle condizioni di povertà in cui vive, sarebbe stato un gioco da ragazzi, ha detto, farsi portare qualche mobile a casa sua, ma non lo ha mai fatto; ha perfino rifiutato di farsi curare i denti, come ha testimoniato il dottor Napoli che gestiva l’ambulatorio medico gratuito.

Pisapia ha parlato anche da ex-sindaco: un sindaco non può non preoccuparsi anche del bene della sua comunità nel momento in cui accoglie. Per questo, coniugare accoglienza e sviluppo locale ha significato lavorare per la pace del suo paese, dove in effetti i nuovi arrivati sono stati non ospiti, ma parte integrante del riscatto del paese intero. E bisogna tener conto delle condizioni in cui il sindaco ha agito; una cosa è parlare di questi temi a partire dalla lettura delle norme, altra cosa è prendere in fretta decisioni per evitare il disastro. Tutti i sindaci, ha detto, conoscono bene questa differenza. E anche se questo porta a commettere errori, gli errori non possono cancellare il carattere positivo degli obiettivi che si volevano raggiungere – tant’è vero che nel dibattimento tutti, in primis il colonnello Sportelli che ha illustrato l’accusa, hanno espresso un giudizio positivo su quanto si voleva fare a Riace.

Nei confronti di Lucano c’è stato invece una sorta di “accanimento non terapeutico”, come lo ha definito Pisapia: non si è voluto tener conto della vita che ha fatto, degli obiettivi che si è dato, ecc., tutte cose essenziali nell’ottica della responsabilità soggettiva.

Seconda questione: le difficoltà proprie adun campo d’intervento come quello delle politiche di accoglienza. Campo frammentario, provvisorio, mutevole, soggetto a improvvisi cambi di rotta quant’altri mai; governato da linee guida, regolamenti, circolari prefettizie, decreti aggiuntivi e chi più ne ha più ne metta. In queste condizioni, date la complessità normativa e la diversità di interpretazione delle norme stesse, diventa difficile produrre prove certe. Come fa un cittadino normale, un sindaco che non ha collaboratori dedicati, a non commettere errori? Riace è stata un laboratorio, è normale che ci siano stati successi e insuccessi. “Sbagliare è umano, ma l’errore amministrativo non è uguale a una condotta penalmente rilevante”. Proprio per questo, ha aggiunto Pisapia, la nostra legislazione prevede casi di non punibilità, come per esempio l’azione in stato di necessità.

Ora, tutti nell’istruttoria hanno riconosciuto che negli anni dell’indagine su Riace l’accoglienza di rifugiati e migranti ha rappresentato un’emergenza improvvisa e le condizioni di emergenza rendono spesso inapplicabili le norme. Ma nell’indeterminatezza propria della legislazione sull’accoglienza, il Comune di Riace è stato anche investito di compiti e responsabilità che spettavano all’autorità centrale. Sui “lungo-permanenti”, per esempio: che potere aveva il Comune per allontanarli? Prefettura e Sprar ne erano perfettamente a conoscenza, ne conoscevano persino il numero, ma non si prendono le loro responsabilità; certo Lucano non voleva mandarli via, per ragioni umanitarie, ma di sicuro non era suo il compito. Oppure sugli affidamenti diretti alle associazioni dei servizi connessi all’accoglienza. Come mette in risalto la Delibera della Corte dei Conti sul sistema di accoglienza negli anni 2013-2016, la Prefettura di Reggio Calabria si era mossa in modo difforme dalle norme, facendo affidamenti diretti ai gestori e ai Comuni.

L’errore dunque non era del Comune di Riace, non era lui che avrebbe dovuto fare i bandi, ha insistito Pisapia, ma la Prefettura; Lucano ha subìto, è stato costretto ad agire, perché chi ne aveva il compito non lo aveva assolto, né aveva esercitato i dovuti controlli. Tant’è vero che TAR e Consiglio di Stato hanno definitivamente riconosciuto che la chiusura dei servizi di accoglienza a Riace era stata illegittima.

Terza questione: la mancanza del movente. È stato ampiamente riconosciuto, nel dibattimento, che non c’è stato arricchimento personale. Senza il dolo, come provare il reato? Si è cercato di argomentare che il vantaggio personale non fosse di natura economica, ma politico-clientelare; a questo fine, l’accusa ha puntato il dito sulle misure di welfare locale in cui sono state investite le “economie” distratte dai fondi pubblici destinati ad accoglienza e integrazione, nell’intento di condizionare il voto a sostegno di Lucano. Ma non può esserci distrazione senza appropriazione a proprio profitto e non c’è prova dell’appropriazione; né regge l’ipotesi che la distrazione di fondi mirasse all’arricchimento patrimoniale dell’associazione Città Futura, il cui statuto esplicitamente esclude ogni patrimonializzazione. In realtà, non si può non tener conto della complessità di finalità dei progetti Sprar quanto all’integrazione: il welfare locale è una finalità dello Sprar. E certamente il welfare locale è parte integrante del laboratorio Riace e dell’agire di Lucano, al fine di costruire una comunità coesa.

In chiusura, gli avvocati hanno chiesto per Mimmo Lucano la piena assoluzione. Pisapia ha citato Calamandrei, che diceva che il giudice penale è un po’ uno storico, in quanto la sua valutazione deve avvenire in un’ottica di soggettività complessiva. Mimmo Lucano ha speso la sua vita per un’idea di accoglienza integrata, i cui confini normativi restano poco definiti, mentre si realizza molto più spesso nei concreti tentativi di metterla in pratica. Se questo è l’orizzonte del suo agire, la ricerca della verità non può non tenerne conto nell’esprimere un giudizio sulle sue responsabilità al di là di ogni ragionevole dubbio.​

Questo articolo è stato pubblicato qui

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