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Bersani: il perdente vincitore

A Bersani resta solo la rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale, almeno è un uomo di sinistra, uno del PD. Tutto il resto è a perdere.

Ma le dimissioni da segretario, le lacrime di Pierluigi Bersani in Parlamento e la rovinosa spaccatura del partito fanno dei democratici i grandi perdenti nella gara elettorale di febbraio.

Dopo un inizio promettente, quando Bersani è stato scelto dal 60 per cento dei voti nelle primarie democratiche a dicembre con circa tre milioni di elettori, il risultato delle elezioni parlamentari fa riflettere. La scarsa distanza dal centro destra, pari a una manciata di voti, ha reso possibile di ottenere il 55 per cento dei seggi alla Camera, ma non di avere la maggioranza al Senato. Merito del porcellum, altrimenti non avrebbe conquistato nemmeno la Camera.

La strategia di Bersani ha portato il PD alla spaccatura su Marini e Prodi, quali candidati alla presidenza della Repubblica, ora rischia di fratturarsi ancor di più per l’avvicinarsi della conclusione di formare un governo con Silvio Berlusconi e il PDL, cioè il nemico di sempre, il giaguaro da smacchiare. Ora, Bersani, vede concretizzarsi sempre più un patto con il diavolo. Lui sperava nella fiducia come primo ministro, anche senza una chiara maggioranza, auspicando di ricevere il voto di fiducia al Senato per merito di qualche scheggia impazzita proveniente da altri schieramenti, addirittura dal M5S. Invece, le schegge impazzite, le covava dentro il proprio partito.

Per i democratici, il dibattito sul proprio futuro lo affronteranno nel prossimo congresso, per ora c’è un’Italia da salvare, serve Berlusconi per farlo, e il PD è sotto pressione per questo. Ora si scopre che ci sono numerose correnti interne, crepe, mal di pancia, divisioni, anime diverse. Finora, tutto questo, era stato coperto, e anche tale fatto è una gravissima colpa dei dirigenti del partito. Impossibile che non fossero a conoscenza di queste divisioni, così profonde e pericolose. Bersani è stato l’unificatore silenzioso, ma anche lontano dalla realtà, visto il risultato finale.

Il partito democratico è stato costituito nel 2007 e aveva l’obiettivo di diventare un “contenitore” per tutti coloro che si riconoscono nei valori del centro-sinistra nello scenario politico italiano. Ma una discussione programmatica seria non c’è mai stata, fin dal principio. Durante gli anni di opposizione a Berlusconi, o durante il periodo che precede le elezioni di febbraio, Bersani ha fatto di tutto per evitare contraddizioni e controversie dirette con l’avversario, l’ha sempre denigrato (smacchiare il giaguaro) ed ha evitato di incontrarlo in dibattiti pubblici. Ha tenuto assieme i suoi compagni e amici di partito su un solo obiettivo: Berlusconi si deve dimettere. Berlusconi non è più presidente del Consiglio, su questo fatto Bersani ha vinto, ma l’avversario è ben lontano dall’essere finito, anzi.

Tutta l’attività politica di Bersani è stata confinata su luoghi comuni contro l’avversario di sempre, ha unito l’intera dirigenza del partito su questo, e ha ricevuto il riconoscimento della strategia con un risultato debole alle prime elezioni da lui gestite.

Da anni l’Italia chiede di essere di nuovo competitiva, di contenere la spesa pubblica, una maggiore giustizia sociale, che venga riformato lo Stato. Invece il PD è stato unito per il solo fatto di essersi convinti di poter battere Berlusconi, un giorno o l’altro, qualsiasi altro obiettivo o programma di discussione profonda, sembrava superfluo. Ora i democratici sono in frantumi, e questo grazie a un fatto abbastanza semplice: hanno dovuto affrontare seriamente una sfida diversa dallo smacchiare qualcuno, hanno dovuto affrontare un argomento qualsiasi, hanno dovuto affrontare una sfida per la prima volta.

Credevano fosse tutto semplice, hanno votato la Boldrini alla presidenza della Camera e Grasso a quella del Senato, si credevano forti. Il gran numero di parlamentari, merito del porcellum e per effetto del premio di maggioranza alla Camera, aveva dato ai democratici un’illusione iniziale di onnipotenza. Allora pensavano che il partito di maggioranza relativa avesse finalmente il ruolo di guida del paese, e Berlusconi appariva battuto. Poi, però, il PD ha mostrato la mancanza di consenso e di un vero programma aggregativo e di coesione. Pensare a otto punti di programma è semplice, tentare di definirli, si vede che è leggermente più difficile. Una cosa è certa: l’Italia giusta, non è quella di Bersani.

Che sia di Letta e… di Berlusconi?

Il PD farebbe bene a pensare seriamente a Renzi, prima che sia troppo tardi.

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