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Becciu e i suoi fratelli

Terremoto nella Santa Sede: dopo il Vatileaks esplode il Becciuleaks. Il sostituto alla Segreteria di Stato, il potentissimo cardinale Angelo Becciu, viene licenziato in tronco da papa Francesco. Per una complicata storia di soldi – tantissimi soldi – usati in maniera spericolata destando l’ira bergogliana. Becciu, per intenderci, prima di cadere in disgrazia era diventato una sorta di portavoce di Bergoglio. L’eminenza grigia che stemperava gli scivoloni papali, così da rassicurare benpensanti e conservatori.

Becciu dalla Segreteria era arrivato a gestire anche l’Obolo di San Pietro, il fondo frutto delle donazioni dei fedeli di tutto il mondo da utilizzare in teoria per opere di carità. In pratica invece, molti soldi sono finiti in speculazioni immobiliari e a foraggiare associazioni e aziende vicine al porporato. Negli anni del viceregno di Becciu ben 454 milioni di euro dell’Obolo sono stati messi a garanzia di un prestito di 200 milioni di dollari erogato da banche svizzere per finanziare l’acquisto di un immobile in una zona lussuosa di Londra. Nello scandalo, che si trascina da tempo, sono coinvolti faccendieri e altri monsignori. Un susseguirsi di rivelazioni, in cui giocano antipatie nel sottobosco curiale, sotto la lente degli inquirenti vaticani. Mentre il tuttora prelato, pur senza più la facoltà di accedere al futuro conclave, contrattacca a colpi di querele e rilasciando orgoglioso interviste.

Questo ennesimo melodramma vaticano, in bilico tra telenovelas e spy story, può certo essere uno spettacolo per il nostro lato anticlericale. Ma limitarsi a ridacchiare e ad assistere allo sfacelo mangiando popcorn per vedere come andrà a finire rischia di far perdere di vista alcuni elementi importanti.

Per prima cosa, la narrazione mediatica si è in gran parte inchinata al consueto e rassicurante schema apologetico che vede un povero, pauperista e sprovveduto Bergoglio ingannato a sua insaputa dai corrotti e rapaci prelati della curia. Pochi hanno avuto il coraggio di interrogarsi criticamente sull’inadeguatezza ormai manifesta di Francesco. Sul susseguirsi di candide parole cui però non seguono rudi fatti. Sulle palesi contraddizioni di una Chiesa ricchissima e potente che ostenta modestia e di un papa che auspica cambiamenti senza però metterli in atto. Quando avrebbe tutta l’autorità per farlo, mentre si susseguono scandali su scandali.

Come ha fatto notare il sociologo Marco Marzano, Bergoglio ha licenziato Becciu «implicitamente additandolo al pubblico ludibrio come traditore», scatenando così la stampa «sul cadavere politico dell’alto gerarca». E scaricando le responsabilità: schema tipico del «rapporto tra i sovrani e la loro corte, tra i dittatori e il loro seguito». Ma la realtà è che «la Chiesa cattolica è la più centralizzata e gerarchica delle istituzioni esistenti» e «il monarca che la guida è dotato di poteri immensi e assoluti». Anche sulla curia che è alle sue dirette dipendenze. Perché Bergoglio, dopo anni di aspettative gonfiate, non è ancora riuscito ad affrontare certe strutturali beghe della Chiesa. I poteri per intervenire li ha tutti. Forse non vuole farlo perché è anch’egli parte di quel sistema che dovrebbe in teoria combattere.

Un altro aspetto da mettere a fuoco in questo marasma è l’intreccio tra un certo associazionismo, realtà imprenditoriali e gerarchie cattoliche. Un connubio espressione malsana di quella sussidiarietà confessionalista che grava sulle tasche di tutti i cittadini (atei e agnostici compresi) ma torna utile a livello di influenza e propaganda alla sola Chiesa cattolica. Stavolta il tutto è reso più palese da rapporti familiari: è stata tirata in ballo pure la schiera dei fratelli del prelato. Non nel senso di frati.

Circa 700mila euro sarebbero stati girati a favore di una cooperativa, emanazione della Caritas di Ozieri in provincia di Sassari. Proprio nel territorio della sua diocesi originaria. La cooperativa Spes di uno dei fratelli di Becciu. Nel 2013 prima 300mila euro sono impiegati per ampliamento dell’attività, poi nel 2015 altri 300mila euro vanno a riparare i danni di un incendio, infine 100mila euro dall’Obolo di San Pietro che devono essere utilizzati per strutture di accoglienza per i migranti ma, rassicura il vescovo di Ozieri Corrado Melis, non sono stati toccati. Proprio il religioso che è stato ordinato vescovo da Becciu si spende a favore del suo “patrono”.

Molti di questi soldi per lanciare la cooperativa targata Becciu, cosa che può indignare in particolare i laici, sono arrivati dall’8×1000 della Cei. Soldi che, vale la pena di ricordarlo, tutti i contribuenti sono costretti a pagare a prescindere dall’aver scelto o meno “Chiesa cattolica” nella dichiarazione dei redditi. Il prelato ha ammesso candidamente di aver chiesto alla Cei di interessarsi e il tutto sarebbe rendicontato. La giustificazione è che questa cooperativa dà lavoro a circa 60 persone in una zona afflitta da disoccupazione. Una plastica rappresentazione della sussidiarietà religiosa, replicata in tante zone d’Italia. Le organizzazioni cattoliche attingono a fondi pubblici e si sostituiscono pian piano alle istituzioni, che si ritrovano senza risorse adeguate per gestire problematiche locali. Quelle stesse amministrazioni che, per tamponare le falle nel welfare, vedono di buon grado il “soccorso” delle realtà cattoliche, con cui intessono rapporti di fiducia se non di sudditanza, in un circolo vizioso che favorisce il clericalismo. Insomma, parafrasando un vecchio slogan: socializzare le perdite e clericalizzare gli utili.

Il sindaco di Ozieri, Marco Murgia, esprime bene questa vicinanza appiccicosa tra clero e istituzioni. Elogia l’impegno di Caritas e Spes: «sono riuscite ad arrivare a situazioni che sfuggivano anche ai controlli dei Servizi sociali comunali». Comprensibile che la perdita di decine di posti di lavoro in un territorio così circoscritto sia mal vista: «Un’ipotesi che ci spaventa e non poco». Vien da dire, anche per questioni di consenso elettorale. Possiamo immaginare quali conseguenze politiche avrebbe, soprattutto in provincia, inimicarsi i sacerdoti che tirano le leve di attività socio-economiche magari cruciali.

Al caso che riguarda Spes si aggiungono altri episodi. Don Becciu ha poi chiamato un altro fratello per lavori di ristrutturazione di alcune nunziature, in Angola e a Cuba, per decine di migliaia di euro. Perché dice, giustamente, lo conosceva e si fidava di lui. Un terzo fratello di Becciu, che commercializza una birra artigianale, si era mosso – senza che il prelato fosse coinvolto – per stipulare un accordo con la Caritas. Così da poter piazzare la dicitura “Caritas Roma” sulle bottiglie in cambio del 5% del fatturato delle vendite, da elargire all’ente cattolico come donazione. E poter accedere ad agevolazioni fiscali.

Senza contare la nota di colore della “dama”, ingaggiata da Becciu per oliare canali diplomatici vaticani. La manager potrà essere estradata in Vaticano per essere processata. I giudici italiani dovranno autorizzare per la prima volta una estradizione verso la Santa Sede. In questo caso le autorità italiane parrebbero fin troppo solerti e collaborative con il Vaticano. Soprattutto se si fa un paragone con casi in cui sono state invece le autorità vaticane a non mostrare questo tipo di prontezza. Si pensi ad esempio al trentennale mistero intorno a Emanuela Orlandi, infittito proprio dalla coltre di opacità stesa da Oltretevere.

Chiaramente – questo è opportuno precisarlo – non ci mettiamo a lanciare accuse di corruzione o peculato a chicchessia. Per questo esiste la magistratura. Quanto emerso sembrerebbe più accostabile all’italianissimo sistema delle raccomandazioni, stavolta “benedette”. Difficile che vengano riscontrati reati, non essendo previsti concorsi o bandi pubblici (o analoghi vaticani) che debbano rispettare certificati criteri di trasparenza o equità. Becciu, personaggio divenuto troppo potente e imbarazzante per la narrazione pauperista bergogliana, viene intanto sacrificato come capro espiatorio.

La Chiesa cattolica, così munifica, ha sempre utilizzato in maniera “caritatevole” le sue enormi ricchezze per un supposto bene comune. Un aggancio con i sacerdoti significa anche avere potenziale economico e credibilità imprenditoriale. Avere accesso, in maniera agevolata e senza troppe pastoie burocratiche, a certe linee di credito. Vendere i propri prodotti o servizi a una larga platea fidelizzata. Contare su contatti ramificati e rispettabili pure presso le amministrazioni, che possono tradursi in contratti. Il risultato è una alterazione di fatto della “libera” concorrenza sul mercato, con lo strascico di potenziali conflitti di interesse e col beneplacito delle istituzioni. Come insegna anche l’annosa questione dell’esenzione dall’imposta sugli immobili di cui godono le strutture commerciali che fanno capo a enti ecclesiastici. O i finanziamenti pubblici alle scuole private cattoliche, erogati con la retorica del presunto “risparmio”. O la situazione della sanità lombarda, egemonizzata da Comunione e Liberazione tramite la Compagnia delle Opere. Insomma il refrain della sussidiarietà cattolica, ormai infiltrata nella Costituzione, stavolta di impronta familista e con la berretta cardinalizia: ma sempre ad maiorem Cei gloriam.

Valentino Salvatore

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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