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Bangladesh: giustiziare chi ha ucciso gli atei è “fare giustizia”?

Dopo quasi sei anni arriva finalmente una sentenza per la morte di Avijit Roy, intellettuale ateo ucciso nel febbraio del 2015 a Dacca in Bangladesh da un gruppo di estremisti islamici per le sue idee critiche verso la religione. Cinque terroristi a processo per l’omicidio sono stati condannati a morte. Giustizia è fatta. O forse no?

La vedova di Roy, Bonya Ahmed, scampata all’attentato durante una fiera editoriale rimanendo gravemente ferita da colpi di machete, ha chiarito che questa sentenza non risolve la questione. D’altronde sull’eticità della pena di morte e sulla sua utilità è legittimo sollevare fortissimi e laicissimi dubbi. Perché spesso è figlia della stessa violenza e della stessa barbarie che pervadono la società e serve a somministrare il contentino di una epidermica vendetta. Ahmed ha denunciato il modo con cui sono state condotte le indagini. Come se l’interesse delle autorità fosse trovare qualche capro espiatorio per l’opinione pubblica, senza affrontare ciò che alimenta da anni l’estremismo islamico in Bangladesh.

“Sei anni di confusione e ritardi” e “domande che non hanno avuto risposta”, ha commentato in un contributo pubblicato sul sito Mukto Mona (“Libero pensiero”, creato proprio da Roy per diffondere la cultura laico umanista). Nel pezzo ricostruisce la dinamica dei fatti e contesta l’atteggiamento reticente delle istituzioni: “questa sentenza non è una conclusione per me o la mia famiglia”. Accusa il procuratore di aver “mentito pubblicamente, dicendo che non ero d’accordo a testimoniare a processo”: “la verità è che nessuno del governo del Bangladesh o della procura mi ha mai contattato”, sebbene fosse stata testimone oculare dei fatti e vittima. I due mandanti principali dell’assassinio a opera del gruppo Ansarullah Bangla Team, tra cui l’ex ufficiale dell’esercito Sayed Ziaul Haque, sono stati condannati in contumacia. Questi è la mente dietro l’uccisione di diversi intellettuali laici, vittime negli anni dei terroristi islamici, tra cui l’editore Faisal Arefin Dipan, già curatore anche di testi di Roy.

La polizia inoltre, denuncia Ahmed, ha ucciso nel 2016 in maniera “extragiudiziale” – “durante una sparatoria”, per usare un altro eufemismo in voga – l’uomo cui è stato attribuito l’omicidio di Roy, l’estremista Mukul Rana detto “Sharif”. Le circostanze sospette dell’uccisione fanno chiedere: “Non sarebbe stato un buon testimone se fosse rimasto vivo?”.

Inoltre, durante il processo per l’omicidio dell’editore Dipan inoltre uno dei killer confessava che “i soldi continuavano ad arrivare per uccidere blogger, editori e omosessuali nel paese”. E ancora Ahmed incalza: “chi ha investigato questo flusso di denaro? Qualcuno l’ha fatto?”. E da dove arrivavano tutti questi soldi? Il sospetto è che ci fossero anche finanziamenti cospicui, magari dall’estero, magari con la complicità di ricche e potenti lobby islamiste.

Il Bangladesh negli ultimi anni ha visto una forte regressione confessionalista, come rileva il Freedom of Thought Report curato da Humanists International. Un copione già visto in altri paesi musulmani. Da una parte l’autorità “secolare” colpisce con pesanti condanne le minoranze sociali più dinamiche, come i laici e i non credenti, nel nome della difesa della religione: l’islam in Bangladesh rimane formalmente “religione di stato” sebbene si proclami in Costituzione lo “stato laico”. Una dissonanza cognitiva e giuridica che noi italiani comprendiamo bene, alla luce della retorica della laicità “positiva” o “sana” o, appunto, “all’italiana”. Dall’altra impazzano, tra sospette connivenze se non vere e proprie complicità, gruppi fondamentalisti violenti che pretendono di farsi “giustizia” uccidendo o gambizzando persone che esprimono idee laiche. Legittimati proprio dal fatto che è socialmente accettabile e del tutto legale arrestare (se non peggio) persone che hanno osato offendere l’islam, o scatenare disordini per fare pressione sulle autorità. Sono due meccanismi che si rafforzano l’un l’altro, vista la scia di omicidi di blogger atei in Bangladesh da parte dei terroristi islamici (alcuni tristi esempi per non dimenticare qui, qui, qui, qui, qui) cui faceva da contrappeso l’incriminazione di altri blogger atei per blasfemia.

Ahmed continua infatti a denunciare la deriva autocratica del Bangladesh: “la libertà di parola è stata limitata ulteriormente; scrittori, blogger e attivisti laici sono stati costretti a lasciare il paese durante e dopo il 2015; è stato implementato un Digital Security Act più rigido; blogger, scrittori ed editori sono stati frequentemente perseguiti per i propri scritti.” Non solo: il governo del Bangladesh, cercando sponde politiche, è sempre più amico di Hefazat-e-Islam, potente gruppo islamista attivo nell’indottrinamento nelle madrase che invocava l’impiccagione degli scrittori laici. Un paese governato da anni da una donna, Sheikh Hasina, che viene esaltata come liberale e modello del mondo femminile, il cui esecutivo ha man mano assecondato le intimidazioni di minoranze islamiste molto rumorose restringendo le libertà mentre ostentava il pugno di ferro verso i terroristi, con un centinaio tra uccisioni e arresti.

In questo gioco l’attivista e scrittrice, molto attiva nel campo laico umanista e per i diritti delle donne, conclude che “perseguire solamente pochi esecutori – e ignorare la crescita e le radici dell’estremismo – non vuole dire giustizia per la morte di Avi, e neanche per la morte di ‘blogger, editori e omosessuali’ prima e dopo di lui”. Per ricordare degnamente Avijit Roy e i tanti attivisti laici vittime dell’islamismo e del confessionalismo (il suo “poliziotto buono”) continuiamo a denunciare la situazione del Bangladesh. E sosteniamo (come fece l’Uaar) le lotte di chi chiede diritti e libertà – che significa laicità – anche per questo paese laico solo a parole.

Valentino Salvatore

 

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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