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Atei: su ‘Avvenire’ il cardinal Biffi rispolvera gli stereotipi: “Hanno fede, si autoconvincono”

Il quotidiano dei vescovi ha dato ad un’anticipazione del nuovo libro del cardinale Giacomo Biffi, "Epifania. L’invisibile che si manifesta". Un testo apologetico che, almeno nelle pie intenzioni, “lancia la sfida ai non credenti”. E che “con spirito benevolo”, aggiunge Avvenire, vuole dare “alcuni consigli agli amici atei, spesso traditi dalla debolezza delle loro argomentazioni contro la presenza di Dio”.

Divenuti ormai una realtà di massa che non è più possibile ignorare, gli atei sono nel mirino della “nuova evangelizzazione” della Chiesa. O quantomeno si tenta di rinchiuderli nell’angusto cortile dei gentili – ma solo quelli abbastanza ‘degni’, di certo non l’Uaar, tengono a precisare i prelati - per farli giocare sulla base delle proprie regole. Ovviamente, solo i più malleabili, in pratica i cosiddetti ‘atei devoti’ o che sono ‘aperti’ a Dio.

Diversi religiosi pretendono di adattare a proprio uso e consumo i concetti “ateo” e “agnostico”. Per monsignor Bruno Forte ad esempio, dovevano essere “sofferenti” (si legga, con un complesso di inferiorità nei confronti della Chiesa) e non “arroganti”.

Biffi, con un articolo dal titolo "L’ateo non lo sa, eppure ha fede" su Avvenire, insiste in un’opera di vera e propria rimozione, che si alimenta di contorsioni filosofiche e citazioni semplificanti. Creando una banalizzazione dell’ateo che risponde a classici stereotipi e desiderata del clericalismo, credendo di poterne smontare meglio le argomentazioni. Si parte dall’assunto che gli “atei dichiarati” sono tenuti a fornire delle “prove” che siano “intrinsecamente valide”. Ribaltando l’idea che siano invece i credenti ad avere l’onere della prova, considerate le mirabolanti affermazioni che propugnano.

Anzi, gli atei sotto sotto non esisterebbero proprio. “E’ più facile che essi arrivino ad una specie di agnosticismo tacito e implicito”. O che a volte dal loro atteggiamento trapeli “come una vigile e timida preoccupazione, a dispetto delle continue dichiarazioni di un ostentato ateismo”. E ancora, lo stereotipo che gli atei parlino sempre di Dio “quasi nell’ansia di ribadire il loro ‘autoconvincimento’”.

Nell’armamentario apologetico del cardinale, si cita la battuta attribuita all’astronauta sovietico Jurji Gagarin e si banalizza lo spinoso problema della teodicea, ribaltando lo slogan che “dopo Auschwitz non è più possibile credere in Dio”.

La deformazione professionale che spinge teologi e religiosi ad rinchiudere i non credenti nei propri schemi dogmatici emerge anche nell’ultimo riferimento di Biffi. Il quale dice che “sono molti gli uomini che con semplicità e spensieratezza si lasciano impressione dall’osservazione che nessuno è mai riuscito a vedere Dio”.

D’altronde, esiste una citazione evangelica per tutte le stagioni. E per concludere, il prelato utilizza “Dio, nessuno lo ha mai visto” (Gv 1,18), per dire che “paradossalmente su questo gli atei, come si vede, si accordano con la parola di Dio”. Ma subito indirizza il tiro, proclamando la sua “epifania”: “proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”.

Il sermone del cardinal Biffi, che è solo un assaggio della sua ultima fatica editoriale, sembra piuttosto l’ennesima dimostrazione non certo dell’esistenza di Dio, ma piuttosto di come i teologi cattolici non riescano proprio a dare dignità ai non credenti. Rappresentati come dei menomati, delle persone da aiutare o demonizzati e dipinti come degli esaltati, sulla base di secolari pregiudizi.

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