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America Latina: estrema destra al contrattacco

In Bolivia, Brasile e Perù razzismo, fascismo ed esclusione sociale rappresentano i tratti caratteristici dei violenti tentativi per ristabilire lo status quo delle oligarchie tramite squadracce paramilitari che hanno caratterizzato questo primo scorcio di 2023.

di David Lifodi

Bolivia, Brasile e Perù sono i tre paesi latinoamericani dove si è manifestato apertamente il golpismo tra la fine del 2022 e questo primo scorcio di 2023.

In Bolivia il golpismo è caratterizzato dal desiderio, mai sopito, dell’Oriente boliviano, di separarsi dal resto del paese e creare uno stato autonomo, la cosiddetta Nación Camba, apertamente razzista nei confronti delle comunità indigene. Il razzismo è anche la chiave della repressione scatenata in Perù dalla presidenta Dina Boluarte, il cui “governo della morte” ha scatenato una violentissima repressione contro gli indigeni. Al netto degli errori, delle molteplici ambiguità e delle contraddizioni di Pedro Castillo, in Perù, come in Bolivia, è evidente il tentativo dell’oligarchia, del grande latifondo e delle classi dominanti di riprendersi il potere.

In Brasile, il golpismo è declinato invece nell’ossessione complottista del bolsonarismo, i cui seguaci, in gran parte bianchi, legati all’estrema destra e alle chiese evangeliche, oltre ad essere legati dagli ideali del negazionismo verso la pandemia, dal disprezzo verso le fasce sociali più povere del paese, nei confronti degli afrobrasiliani e, più in generale, verso qualsiasi forma di diversità, sono convinti che le elezioni vinte da Lula siano state caratterizzate dalla frode, come del resto è accaduto in Bolivia, dove, già prima della vittoria dell’attuale presidente del Mas Luis Arce, l’estrema destra separatista parlava di furto elettorale utilizzando gli stessi toni del fascismo bolsonarista. Razzismo, fascismo ed esclusione sociale rappresentano i tratti caratteristici dei violenti tentativi per ristabilire lo status quo delle oligarchie tramite squadracce paramilitari.

In Bolivia, tra il mese di dicembre e questo primo scorcio di gennaio sono cresciute le proteste contro i sei mesi di carcere a cui è stato condannato il governatore di Santa Cruz Luis Fernando Camacho, un picchiatore della prima ora tra i protagonisti del golpe del 2019 contro Evo Morales che portò al governo civico-militare di Jeanine Añez, caratterizzato da massacri compiuti soprattutto contro la popolazione indigena, in particolare quelli di Sacaba e Senkata.

Tra le vittime dei sostenitori di Camacho, i paramilitari dell’Unión Juvenil Cruceñista, anche Jorge Tellería, avvocato del Servicio de Impuestos Nacionales sequestrato e torturato per alcune ore lo scorso 30 dicembre dagli sgherri dell’UJC.

La forza dei separatisti e il sostanziale senso di impunità di cui si sentono forti deriva anche dal sostegno rivolto a Camacho da parte delle gerarchie della Conferencia Episcopal Boliviana, schieratasi sempre dalla parte di Camacho e dei suoi seguaci, oltre ad aver appoggiato Jeanine Añez all’epoca del colpo di stato, come denunciato dall’Asociación de Víctimas de la Masacre de Senkata.

La detenzione di Camacho ha scatenato forti proteste e violenze da parte della destra separatista, il cui scopo principale è sempre stato quello di minare lo Stato plurinazionale boliviano attraverso un processo di balcanizzazione che consiste nell’esasperare all’ennesima potenza la propaganda regionalista tramite slogan come “Santa Cruz alimenta a Bolivia”.

Dal colpo di stato del 2019 il separatismo ha ripreso forza, in particolare la rivendicazione della cosiddetta cruceñidad, imposta all’opinione pubblica come necessaria per far cadere il governo di Luis Arce.

Dalla Bolivia al Perù la situazione non cambia. La repressione contro la protesta, condotta in particolare dalle comunità indigene, che stanno pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane, non accenna a diminuire a seguito della destituzione di Pedro Castillo. La mobilitazione inizialmente all’insegna dello slogan que se vayan todos si è trasformata in una aperta resistenza contro quella che, ufficialmente è una democrazia formale, ma di fatto agisce come una dittatura, la cui presidente è Dina Boluarte.

 

La sola anticipazione delle elezioni al 2024, inizialmente previste nel 2026 (alla fine del mandato di Castillo), non sono bastate a placare la degna rabbia popolare. Cárcel para los asesinos è divenuta la consegna principale di una protesta che, nonostante la repressione, non si arresta e chiede la creazione di un’Assemblea costituente per cambiare la Costituzione fujimorista.

La radice della violenza, in Perù, consiste nel disprezzo delle elites per la popolazione di indigena e contadina in un paese dove è evidente lo scollamento tra elettorato e rappresentanza politica, come testimoniato da una mobilitazione sociale all’insegna dell’auto-organizzazione.

La classe media e le elites, che risiedono in particolare a Lima, talvolta definiscono gli indios come “migranti”, pur abitando nello stesso paese, per tacere degli insulti, da “selvaggi” a “terroristi”, nei confronti della popolazione aymara o quechua e, più in generale, di tutta la popolazione andina che abita a Cusco, Puno, Arequipa o Ayacucho, zone del paese letteralmente assediate dai militari inviati da Dina Boluarte, su cui pende l’accusa di genocidio.

Democrazia e diritti fanno paura al separatismo boliviano, all’oligarchia terrateniente peruviana, che in un paese caratterizzato da enormi disuguaglianze sociali ha sfruttato al meglio le politiche contraddittorie di Pedro Castillo per fare piazza pulita degli indigeni, ma anche al Brasile del neofascismo bolsonarista, dove le istituzioni democratiche sono state assaltate grazie alla complicità dei signori dell’agrobusiness, dell’esercito, del segretario di Sicurezza del Distretto federale di Brasilia, Anderson Torres, poi destituito, e da un esercito di finanziatori appartenenti al mondo del capitalismo brasiliano.

Probabilmente, solo a lotta e la mobilitazione dei movimenti sociali, della società civile, dei partiti politici progressisti e di sinistra, in Brasile e in Bolivia, potrà riuscire a difendere quei diritti conquistati ed evitare che le destre non facciano compiere dei pericolosi passi indietro come avvenuto con Bolsonaro e Añez. Ancora più complicata la situazione in Perù, dove un’inesistente rappresentanza politica ha spinto le organizzazione popolari ad agire in maniera auto-organizzata.

In tutti e tre i paesi, questo è certo, le destre hanno dimostrato chiaramente di voler riprendere il potere scontrandosi con i movimenti sociali e cercando di far prigioniere le istituzioni democratiche.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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