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Isis e Hamas: la presunta alleanza

Il numero delle vittime nella striscia di Gaza cresce, di ora in ora, sotto i colpi dell’aviazione israeliana. Il bilancio aggiornato parla di 190 morti e 1400 feriti, nell’attesa di capire se il cessate il fuoco proclamato unilateralmente da Tel Aviv si concretizzerà. Continua intanto il lancio di razzi Qassam verso il territorio israeliano, a testimoniare il rifiuto di Hamas alla proposta di tregua formulata dall’Egitto, considerata alla stregua di una dichiarazione di resa da parte del partito fondamentalista.

In un contesto in continua evoluzione, si analizzano le motivazioni che hanno spinto il governo Israeliano a intraprendere una violenta azione militare contro Hamas e la Striscia di Gaza. Il continuo lancio di razzi Qassam è un fattore importante, ma non determinante, in considerazione della loro scarsa efficacia. Il rapimento e la successiva uccisione dei tre adolescenti israeliani è stato senz'altro un fattore scatenante, ma le indagini sono ancora in corso e non sono emerse evidenze che colleghino direttamente Hamas al triplice delitto. L’organizzazione fondamentalista ha sempre negato ogni coinvolgimento, mentre emergono scenari alternativi; un articolo apparso sul Times of Israel riporta la rivendicazione di un non meglio identificato gruppo jihadista palestinese, affiliato allo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante.

Ed ecco emergere un nuovo elemento, nella guerra asimmetrica tra Israele e palestinesi. Secondo alcuni analisti, l’ISIS rappresenterebbe una minaccia diretta per lo Stato ebraico. Il movimento jihadista sunnita appoggerebbe infatti Hamas per coinvolgerlo nel progetto di costituzione di un nuovo Califfato, governato dalla sharia. Nello scenario disegnato da Marek Halter su La Repubblica, il leader del movimento, Al Baghdadi, punterebbe a liberare Gerusalemme dalla presenza ebraica. Per realizzare il suo obiettivo, l'ISIS userebbe Hamas e i gruppi armati salafiti che operano nella Striscia come un diversivo per tenere impegnato l’esercito israeliano a Gaza e avere campo libero per attaccare e prendere il controllo della Giordania, al confine con il paese ebraico. In questo contesto, Hamas rischierebbe di essere usato dall’ISIS e poi egemonizzato dai gruppi che ad essa si ispirano, già attivi e diffusi in Palestina.

Il timore che l’ISIS possa realmente affacciarsi sulle rive del fiume Giordano, al confine con Israele, appare però esagerato, come sottolinea Robert Fisk sull’Indipendent. Israele dispone della quinto esercito più potente al mondo e di una forza aerea molto efficace. Nulla impedirebbe all’IDF (Israel Defense Forces) di continuare la propria campagna contro Gaza e, al contempo, stroncare sul nascere ogni tentativo dell’ISIS di estendere il proprio califfato fino ad Amman.

L’idea della minaccia jihadista sarebbe tenuta viva, secondo Fisk, perché funzionale ad un duplice scopo: mantenere il controllo militare delle zone al confine con la Giordania e sottrarre ad un eventuale futuro stato palestinese in Cisgiordania ogni confine verso l'esterno, relegandolo a semplice enclave circondata dai territori israeliani. La posta in gioco sarebbe dunque il controllo del territorio, in uno scenario futuro più o meno remoto. Del resto, si chiede ancora il giornalista dell’Indipendent, se il timore di un invasione jihadista dal fronte giordano fosse realmente tenuta in considerazione dal governo israeliano, perché continuare ad autorizzare la costruzione di insediamenti colonici (illegali) su qui territori?

L'analisi troverebbe conferma nelle parole del portavoce dell’ISIS, riportate da Israel National News lo scorso 10 luglio. In risposta a chi accusava il suo movimento di non supportare in modo adeguato Hamas e gli altri movimenti palestinesi, Nidal Nuseiri ha ribadito che lo scopo ultimo dell’ISIS è la riconquista di Gerusalemme, ma ha anche fatto capire che i tempi non sono maturi per ingaggiare uno scontro aperto con Israele. L’approccio dello Stato Islamico è sistematico, in questa fase, e prevede il raggiungimento successivo di una serie di obiettivi. Alcuni di questi passaggi, come la creazione di una solida base in Iraq da utilizzare per le azioni in Siria e Libano, sono già stati implementati. Altri, nelle intenzioni di Al Baghdadi, saranno realizzati in seguito. Il piano di lungo periodo prevede attacchi sul territorio americano e contro gli interessi statunitensi all’interno del mondo islamico, nonché l’espansione degli attuali confini dello Stato Islamico, fino alla creazione di una nuova Grande Siria, comprendente Iraq, Siria, Libano, Giordania e, possibilmente Gaza. Solo quando questi traguardi saranno raggiunti, conclude il portavoce, sarà portato un attacco diretto contro Israele.

Il rapimento e l’uccisione dei tre coloni, il continuo lancio di razzi e, infine, la minaccia amplificata del jihadismo, sono i grimaldelli con cui Israele spera di allentare la resistenza dell’opinione pubblica internazionale all’attacco su Gaza e stemperare l’indignazione per le numerosissime vittime civili provocate dai bombardamenti. L’obiettivo dell’operazione Protective Edge sembrerebbe dunque essere la definitiva eliminazione di Hamas dalla Striscia, in un momento in cui l’organizzazione palestinese appare indebolita ed isolata: il conflitto siriano e la caduta dei Fratelli Musulmani in Egitto l’hanno privata delle tradizionali travi di sostegno e il moltiplicarsi nella Striscia di gruppi salafiti indisponibili ad ogni forma di trattativa rischia di marginalizzarne l’influenza sul fronte interno.

Forse proprio in ragione di questa debolezza, Hamas aveva deciso recentemente di aprire all’Autorità Nazionale Palestinese, allo scopo di trovare un accordo per la creazione di un governo di unità nazionale. E forse proprio questa apertura, che poteva indirettamente tradursi in un ammorbidimento delle posizioni di Hamas verso il nemico storico israeliano, non è andata giù a Netanyahu e al suo governo, prigionieri di una strategia e di un linguaggio che individuano in Hamas la fonte di tutti i mali. Un’alleanza con Abu Mazen, sottolinea anche Halter, avrebbe permesso ad Hamas di estendere la propria influenza politica verso il West Bank e avrebbe costretto Israele a trattare con l’organizzazione nazionalista su un piano non più esclusivamente militare.

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