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Fatti di sangue e luoghi comuni

L’ultima strage familiare, particolarmente agghiacciante per la freddezza con cui è stata commessa, ha colpito tutti come uno schiaffo.

E naturalmente fa scorrere fiumi di inchiostro.

E’ normale che sia così, perché sono fatti che fanno venire i brividi per l’incapacità, forse l’impossibilità, di comprendere che possa essere vero. Che possa essere successo sul serio che un uomo sgozza la compagna di anni e i suoi due figli, uno piccolissimo, e poi, come se niente fosse, se ne vada dagli amici a guardare la partita.

Perché questa strage? Pare che si fosse invaghito di una collega. E la “logica”, se mai si possa parlare di logica in un caso simile, deve essere stata “elimino l’esistente - moglie, figli - e torno alla base”; al punto di partenza. Così ricomincio con l’altra in una sorta di tragico gioco dell’oca dove moglie e figli sono solo caselle raggiunte, ma cancellabili con un semplice tiro di dadi.

Quel rapporto era “una gabbia”, sembra che abbia detto. I figli erano una gabbia. E dalla gabbia non si esce cercando la chiave dei propri rapporti limitati e limitanti, ammesso che fosse così, ma abbattendo le sbarre. E se le sbarre erano (o fantasticava che fossero) gli esseri umani della sua stessa famiglia, uccidendoli.

E’ qualcosa che fa venire i brividi. Roba, viene spontaneo pensarlo immediatamente, da “dottori”. Roba da psichiatri. Questo dice il buon senso e si ferma lì.

O dovrebbe fermarsi lì, lasciando il campo al parere dei medici della psiche, gli unici autorizzati dallo Stato, nel caso, a intervenire.

Invece non va così. Invece, come sempre quando avvengono fatti di cronaca di questa tipologia, scatta immediatamente la chiamata di correo dei sostenitori della vulgata culturale dominante. Ed ecco apparire in men che non si dica la solita, perenne idiozia: l’assassino è “il mostro che vive in tutti noi”. 

Questa volta la palma ce l’ha tal Emanuele Perugini, detto “sojuz”, giornalista de l’Unità, quotidiano che, per la sua storia, dovrebbe essere alieno, almeno un po’, a diffondere l’idea che l’umanità sia originariamente perversa, cannibalica, tendenzialmente omicida; altrimenti l’innata socialità dell’essere umano che Marx aveva posto alle basi della sua utopia come potrebbe mai essere sostenuta?

Ma i nipotini del filosofo tedesco sono passati nel tritacarne culturale di questo occidente cristianizzato, nato e cresciuto all’ombra delle colpe originarie: non discendiamo tutti dal Gran Trasgressore all’inizio del tempo? Non siamo tutti figli di Caino, l’assassino? Non siamo quindi, tutti noi, potenzialmente omicidi?

Adeguandosi prontamente alla cultura dominante il nostro non va al di là della ripetizione del trito e ritrito. Rimasticando le banalità dei Garimberti, degli Andreoli, dell'intelligencija all'amatriciana: “C’è del buio molto fitto in ognuno di noi e grandi mostri si nascondono nell’animo dell’uomo: in tutti gli uomini (anche nelle donne) e da sempre. La storia è piena di episodi raccapricianti come questo di Motta Visconti. Invece che nascondere la testa sotto la sabbia - invocando la pena di morte - sarebbe invece importante che ciascuno di noi imparasse a fare i propri conti coi suoi mostri e col buio inevitabilmente presente nella sua anima. Che ognuno di noi potrebbe essere lui. Qualche volta capita che qualcuno di noi diventi come lui, o come lei, perchè il buio della mente, i mostri dell’anima, non fanno distinzione di sesso o di genere”.

La stupidità di queste frasi non si ferma davanti a niente. Soprattutto non si ferma davanti alla semplice considerazione che sessanta milioni di persone sono nate, vivono e via via muoiono in questo paese senza aver mai fatto del male a una mosca. Tranne un irrisorio numero di persone, qualche centinaio ogni anno, che uccide. Uccide donne per lo più. Essendo andati incontro ad una loro, personalissima, tragicissima, tristissima catastrofe mentale.

Non c’è nessun mostro “in tutti noi”. C’è una malattia della mente che colpisce qualcuno, ogni tanto, esattamente come la meningite colpisce qualcuno, ogni tanto, uccidendolo. Si ammalano e muoiono dei corpi, anche dei giovani corpi, e si ammalano e muoiono delle menti, anche giovani menti.

E’ malattia, non la normalità del “buio della mente” così come la meningite non fa un "buio del corpo". A meno di non vivere ancora in un medioevo mentale in cui la malattia è segno della punizione divina. E qualcuno ancora delira su questo.

Non ci sono “mostri dell’anima”, mostri che tutti noi abbiamo “dentro” fin dalla nascita. Perché mai dovrebbe essere così quando è evidente che non tutti uccidono, che non tutti sgozzano, non tutti cannibalizzano i propri figli, le proprie mogli, le amanti, le sorelle. Non “tutti”. Solo qualcuno.

Impietrire l’umanità intera con questo stupido, ossessivo ritornello - l'aria fritta del sonno della ragione che genererebbe mostri - ripete la solfa della colpa originaria che albergherebbe in tutti noi, ma non dice alcuna verità antropologica, tantomeno alcuna verità scientificamente provata. Solo l’ipnotica cantilena che vuol fare degli esseri umani dei succubi impotenti, terrorizzati prima di tutto da se stessi.

E' cultura dominante che vuole perpetrare il proprio dominio. Carta straccia.

 

Foto: Antonio Tantieri/Flick

Commenti all'articolo

  • Di Fabio Della Pergola (---.---.---.152) 17 giugno 2014 12:19
    Fabio Della Pergola

    Aggiungo (dall’Amaca di Michele Serra): "Abbiamo imparato a dubitare della retorica della libertà sessuale, con tutte le facilonerie connesse, i rischi sottovalutati, le cicatrici inferte e subite; ma la retorica della “famiglia tradizionale” come luogo di sole virtù e soprattutto di sole sicurezze: quella, quando è che verrà messa finalmente in dubbio, magari aprendo un varco di salvezza per chi scappa?"

  • Di (---.---.---.240) 19 giugno 2014 20:10

    La "logica" mostruosa di cui si parla all’inizio dell’articolo è innescata dalla spersonalizzazione, che può portare addirittura a uccidere, quando qualcuno pensa che un altro sia la "natura del problema".
    La comunicazione efficace serve a personalizzare le parti in lite (per far riconoscere ciascuno nei panni dell’altro), a separare le persone dal problema (per distinguere le intenzioni e le emozioni di ciascuno dai relativi atteggiamenti), a ristrutturare la relazione (per trovare soluzioni costruttive col dialogo) oppure a interrompere la relazione evitando i danni (che le persone tendono a sottovalutare, quando sono vittime delle proprie emozioni).

    • Di Fabio Della Pergola (---.---.---.152) 19 giugno 2014 20:18
      Fabio Della Pergola

      La logica che dice "cancello l’esistente" e ricomincio così "liberato" daccapo mi sembra attenere alla pulsione di annullamento così come la descrive Fagioli in "Istinto di morte e conoscenza". Non sono uno psichiatra e quindi non so dire se il termine "spersonalizzazione" abbia a che vedere con questo caso, ma ho l’impressione il problema sia molto profondo se l’anaffettività del soggetto, causata dalla pulsione, è tale da non far distinguere più la vita umana di un bambino o di una donna da un fastidioso impedimento.

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