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Vivere il locale

Mi piace molto il temine "locale", molti parlano di localismo, mi suona però parecchio male questo termine.

Perché amo identificarmi, chi mi legge spesso lo sa, nel locale? Perché è una dimensione di vita che emotivamente mi tiene parecchio vicino a quelle che sono state le fonti originali delle mie esperienze ed aiutandomi così a ripararmi dagli attacchi omologativi della globalizzazione, la quale mi "parametra" per tecnologia e quantità e non per valori e tradizioni. Vivere il locale permette inoltre, vivendo esperienze nate "dal basso", di gustarsi il processo di un obbiettivo mentre lo si crea, il globale spesso ci presenta invece un prodotto già creato.

Vivere in modo locale significa quindi operare in spazi più ristretti, che consentono alla persona di sentirsi sicuramente più viva e di partecipare a progetti e processi laddove si recupera la relazione con la singola cosa o la singola persona.

Sono convinto che lo spazio geografico, unito a quello emotivo, aiuti a definire il limite dove un controvalore utile sia tale per la persona e non per gli strateghi della imposizione globale.

Gli individui che, ravvicinati, condividono un progetto, uno stile di vita, delle esperienze vissute, tramite una condivisione empatica saranno in grado di fruirne, quali fonti di benessere e di arricchimento della vita ed equilibrio sociale.

Chi si riconosce in questa visione che ritengo "etica e locale" non si riconosce nel progresso "sulla fiducia", ma chiede che esso venga in un certo senso provato, tramite il vissuto, non il probabile, chiede che quanto di innovativo viene presentato porti dei vantaggi per l’uomo nella propria interezza. 

Oggi si vive tessere incorporate di un puzzle omologatore, che rischia di provocare più danni del nazismo o del comunismo, si vive in una realtà mondiale unificata non più formata da realtà individuali ma da una formula globalizzatrice. 

In pratica un percorso che permette di provare, consapevolmente e volontariamente, valori concreti ed interiori che l’omologazione cancella dalle nostre esperienze possibili.

Nel tempo il processo globalizzatore ha, di fatto, cancellato l’empatia, quel processo appena descritto che ha luogo nelle relazioni interpersonali, la quale consente di stabilire con gli altri individui dei rapporti di cooperazione oltre a quelli di competizione.

Mettendola anche un po’, ma nemmeno troppo, sul romantico, possiamo affermare che le relazioni empatiche si esprimono anche verso le “cose”, quindi ciò che si crea e chi ha condiviso un percorso o delle emozioni, produce felicità.

Spesso nel descrivere il mio credo politico parlo di autonomia, responsabilità, sostenibilità e partecipazione, questi valori richiedono (e donano) all’individuo una necessaria dote: la consapevolezza. Essa si forma grazie alle esperienze, pratiche e filosofiche, personali o sociali che siano e permette di stabilire, criticamente, la priorità delle scelte. Grazie ad essa possiamo stabilire i limiti oltre i quali scienza ed economia non debbono passare, limiti, superati i quali, l’individuo corre il rischio di perdere il contatto con la realtà e di modificarla, senza sapere dove e come si finirà. In questo momento la tecnologia ha cancellato, nella maggior parte di noi, gli “stimoli esterni” del fare e condividere, di conseguenza l’individuo, di fatto, ha perso le possibilità di esercitare integralmente le varie capacità personali. Quanto perso va recuperato, cancellando dal nostro pensiero che immettere energie fisiche in un percorso, un progetto, un investimento sia puro sforzo fisico, esso è, se non si deborda dalle proprie capacità anche soddisfazione.

Abbiamo parlato di economia, essa è ritenuta il meccanismo che sviluppa i beni materiali, col tempo ci è stato inculcato nel cervello che la ricchezza materiale è l’unica cosa che rende felici, dobbiamo uscire da questa logica … oltre un certo limite, ogni bene perde valore, per cui la crescita infinita non serve a nessuno in quanto sposta all’infinito la possibilità di godere; il massimo consumo, conseguente alla massima produzione, sacrifica a - quello che si ritiene - il massimo della funzionalità, valori quali: le relazioni personali, le tradizioni, l’attaccamento per il lavoro, i legami familiari, la solidarietà, i beni
comuni, la giustizia sociale. Vivere il locale tonifica invece la componente empatica dalla relazione umana.

Riconoscersi in autonomia, responsabilità, sostenibilità e partecipazione, soprattutto in sostenibilità, significa riconoscere pericoli nella modifica della base biologica sia dell’uomo che della natura, che esso vive e consuma; non potremo mai conoscerne gli effetti in anticipo, ma nemmeno in pochi anni, meglio basarsi sull’esperienza diretta.

Un grosso aiuto all’ambiente deriva anche dai rapporti più vicini che vivere il Locale consente, si necessita di un minore uso di energia e di materiale, sfruttando decisamente meno l’ambiente, creando un rapporto di conoscenza e rispetto maggiori con l’ambiente naturale.

Vivere il locale consente relazioni ravvicinate, di conseguenza gruppi dove la gente riesce ad esprimere più empatia, più solidarietà e quindi più gioia; più una comunità è “larga” tanto più le relazioni vanno defilandosi, il senso del bene comune si scioglie come neve al sole e la solitudine dilaga.

Vivere il Locale è cultura e tradizione esse delineano l’equilibrio di un popolo o di un individuo con la propria storia e con il proprio ambiente naturale e relazionale. Viverlo come esperienza locale insegna che l’imposizione di una cultura non è un vantaggio per chi lo riceve, appurato che stravolge un suo modo di vivere, ma insegna che non è un vantaggio neppure per l’impositore in quanto porta spesso solo a tensioni, nervosismi e contrasti. La varietà di culture (personali o comunitarie che siano) rappresenta la diversità degli elementi dell’animo umano, che vengono mossi a seconda delle varie circostanze e necessità; il rispetto di tutto questo è un momento di arricchimento relazionale che va protetto nell’interesse tutti.

Chi vive il Locale si riconoscerà sempre in questi valori, senza dare ad essi un valore monetario o materiale, il bello è bello perché è bello, non perché dà profitto.

Vivere il Locale significa rigetto del consumismo sfrenato teso alla rapida
sostituzione degli oggetti d’uso, oltre alla parte della sostenibilità, vi è anche empatia con le cose che contornandoci creano un rapporto arricchente di ricordi ed emozioni; quindi la parsimonia e la decrescita quantitativa non sono simboli di impoverimento, ma fonti di vita.

Nella foto Samso (Danimarca)

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