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Via D’Amelio. La storia non è stata ancora scritta

 

Diciannove anni fa faceva un gran caldo a Palermo. La città si era svuotata, era una domenica. La gente di “popolo” si era riversata sulle spiagge, chi poteva si era già trasferito la sera prima nella casetta a mare. Il 19 luglio era una giornata iniziata così. Soffocata da un sole spietato.

C’era chi lavorava quel giorno però a Palermo. Fin dalle prime ore del mattino. Un uomo di mezz’età, fumatore incallito e altrettanto incallito “macinatore” di carte, se ne stava nel suo studio dalle prime ore della mattina a rileggere appunti. È facile immaginarlo con un paio di jeans e una polo verde, come quella in cui lo si vede nell’ultima intervista rilasciata proprio in quello studio borghese. Contemporaneamente degli altri uomini organizzavano gli ultimi dettagli di un’azione di guerra. Osservatori lungo un percorso obbligato, un 126 imbottito di tritolo parcheggiato in una strada circondata da palazzoni residenziali, un telecomando. Precisi, professionali, freddi. Uomini che combattevano una guerra. Professionisti. Forse c’era qualcun altro ancora che lavorava quel giorno a Palermo. Qualcuno che stava seduto in una stanza dentro un castello a mezza costa lungo le pendici di Monte Pellegrino e di tanto in tanto andava fuori, al belvedere, a controllare quella strada e quel 126, a verificare collegamenti e utenze telefoniche. Calmo. Rilassato. Qualcuno figlio della guerra fredda, uomo forse di Stato o forse di “portafoglio”, comunque formatosi nella logica che vedeva qualsiasi patto come possibile in un’ottica che vedeva giustificabile ogni alleanza, anche la più scellerata, praticabile per impedire il pericolo rosso. Pezzo deviato dello Stato. A quell’epoca si definiva così quella roba senza arrossire. C’era anche chi attendeva e basta. A bordo di una barca nel golfo di Palermo prendendo il sole e bevendo bibite fresche, in un covo di lusso in un quartiere residenziale di Palermo, e ancora in un appartamento dalle serrande abbassate della capitale, casomai in uno studio a due passi da Montecitorio, e poi – certamente - in una cella con ogni comfort all’Ucciardone oppure in una di massimo isolamento all’Asinara.

Mentre la città si riversava a mare spinta dal solleone, c’era chi lavorava, quindi, in quella giornata di luglio a Palermo. Un lavoro terribile. Che andò a compimento alle 16 e 55 in via D’Amelio.

Così sono morti Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

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