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Unione Europea: ciò che non viene spiegato

In un Paese che annega nella deflazione, nella disoccupazione, nella disuguaglianza, nell’avvilimento della sua stessa struttura democratica, certe trovate e alcune ricette per tentare di annientare quelle terribili situazioni assumono dei toni patetici, ancorché comici. Si è parlato di introdurre talune attività economiche illecite nel PIL, in modo di aggirare l’ostacolo del 3 per cento di spesa imposto dalla UE. Sarebbe a dire che se uno guadagna mille euro al mese, al netto di quello che gli rimane dopo aver pagato debiti, mutui e spese correnti, può spendere al massimo trenta euro, a meno che non dimostri di guadagnare molto di più, dichiarando introiti in nero. Già di suo, questo asservimento e questa cieca obbedienza dell’Italia a una regola oscena imposta dall’Unione Europea annacqua la definizione di sovranità del nostro Paese e ne causa tutti quei mali menzionati all’inizio.

La trovata geniale è dunque dimostrare che il PIL italiano è composto anche da ricchezze che provengono dal traffico di droga, dalla prostituzione e dal contrabbando. Dunque, all’Italia basterebbe che le prostitute emettessero fattura per le loro prestazioni e l’indicatore di ricchezza si innalzerebbe sensibilmente. Parafrasando Antonio Albanese, si potrebbe dire che nel momento in cui le puttane emettessero fattura, ci sarebbe più PIL per tutti.

Sin qui il lato comico della vicenda, perché poi c’è quello tragico, non essendo riconducibile a stime attendibili il valore del traffico di droga in Italia e tantomeno la circolazione di denaro contante che ne consegue, giacché gli stupefacenti non si comprano col bancomat e il “commerciante” non emette scontrino, come non rilascia fattura il grossista. Misera dunque quella democrazia che deve appellarsi al potere economico della illegalità, delle mafie e dei traffici illeciti. Ma perché siamo ridotti sino a questo punto noi italiani? Perché ubbidiamo così ciecamente a delle regole che stanno ricacciando il nostro Paese al tempo dei Borboni? L’Europa ce lo chiede, e l’Europa però ci dà. Vediamo dunque quale è il rapporto dare/avere tra l’UE e l’Italia. Non è che siano stati fatti degli studi approfonditi sull’argomento, ci sarebbero da leggere tonnellate di pagine e dunque appare impossibile rendere edotti i cittadini su questa materia, ci si può solo provare.

Esistono uscite a carico dell’Italia che travalicano le tre stabilite dai trattati e che contribuiscono a formare il bilancio, ossia: il contributo di adesione all’Unione Europea con risorse proprie di ogni stato membro; la quota di Iva cedutagli in favore e la rinuncia, sempre in favore della UE, della quota di dazi percepiti per l’ingresso nel mercato europeo di merci provenienti dall’estero, zucchero in particolar modo. Sotto la voce dazi, trova in parte ragion d’essere la disincentivazione di talune attività produttive come l’agricoltura e la pesca. Perché, ad esempio, l’UE non potrebbe imporre dazi a prodotti provenienti da uno stato membro; gli verrebbero meno risorse economiche, solo dall’Italia, pari a circa sei miliardi di euro. Questo spiega perché al nostro Paese, tradizionalmente terra di latte, barbabietole da zucchero e tonni, è proibito mungere le mucche, raffinare lo zucchero e andare a pescare. In linea di massima, estrapolando i dati dalle voluminose e articolate pubblicazioni della UE, l’Italia contribuisce alla formazione del bilancio dell’Unione mediamente per 16 miliardi di euro all’anno. E poi ci sono le multe; le contravvenzioni; gli accantonamenti obbligatori per la costituzione di fondi come il “salva-stati” con relativa rinuncia degli interessi maturati in favore dell’Unione; qualcosa che vale non meno di tre miliardi.

Da queste somme iscritte a bilancio a Bruxelles derivano e arrivano i famosi, ancorché famigerati, fondi europei, suddivisi per tipologie, assi e misure, per lo sviluppo economico dei paesi membri. Ebbene: l’esborso italiano in favore della UE è mediamente quasi il doppio di quello che poi il nostro Paese riceve. Diamo via 16 miliardi e ne riceviamo mediamente 9 (si dice che ne riceveremo appena 5 nel periodo 2014/2020). Siccome, per un serie di meccanismi, che vanno dalla vacuità delle richieste e dei progetti candidati a finanziamento, alle frodi; dalla tortuosità di regole per la rendicontazione e la spesa, sino alle valutazioni circa la convenienza degli investimenti, di quei quattrini, cioè di quei 9 miliardi di euro, l’Italia mediamente ne spende la metà, e gli altri tornano indietro. Alla fine della giostra, di soldi alla UE ne diamo il doppio di quelli che riceviamo.

Negozio a perdere? Peggio, molto peggio se è vero che dal 2008 siamo in una crisi che si acutizza sempre più e dalla quale sembra non esserci via d’uscita. Però l’UE insiste nel chiedere riforme; il Governo vara riforme che alla crisi non gli fanno neppure il solletico, oltre a restringere gli spazi di democrazia; chi c’era prima di Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi, messi insieme, conta ancora più di prima. C’è dunque altro che occorre riformare; in primis c’è da rivedere e ripensare le regole di ingaggio di questo matrimonio tra l’Italia e l’Unione Europea cui i cittadini non sono mai stati invitati, e prendere in seria considerazione un divorzio consensuale. Ma queste sono cose di sinistra, che la destra non avrebbe mai osato fare, e ora, per nostra disgrazia, al Governo c’è il PD, in altre faccende affaccendato; a leccare un gelato, a sfoggiare camice bianche, a straparlare alla Baricco, mentre l’Italia annega nella deflazione e nella disoccupazione.

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