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Una riforma del lavoro contro la demagogia della conservazione

"La Cgil non deve cambiare perchè lo chiede Renzi, ma deve attuare una trasformazione democratica perchè lo chiedono i lavoratori, i precari, i giovani". Non è il solito attacco di qualche ministro del Governo che odia Susanna Camusso, ma le parole di Maurizio Landini, leader della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici, l'ala più a "sinistra" della Cgil. E ancora: la concertazione di una volta "era una cosa barocca, lenta, burocratica", non è la teoria di qualche assatanato liberista anti-sindacale ma le considerazioni di Cesare Damiano, ex ministro del Governo Prodi e tradizionale voce della sinistra economica. 

Sono solo un paio di esempi che testimoniano come il Dl Poletti sulla riforma del mercato del lavoro stia andando nella giusta direzione, nonostante l'ondata di 700 emendamenti che hanno rischiato di sconvolgerne l'impianto inziale, d'impronta decisamente più liberale, e nonostante la continua opposizione di una parte del sindacato che si ostina a difendere un modello sociale non più sostenibile, che non tiene conto dei profondi cambiamenti sociali intercorsi nell'ultimo quarto di secolo.
Finalmente si volge lo sguardo ad uno scenario economico in continua evoluzione, complice il processo di globalizzazione e la crisi finanziaria, uscendo dalle logiche del Novecento (o peggio dell'Ottocento) che dividevano il mondo del lavoro in due blocchi distinti e contrapposti: da una parte il padrone cattivo e senza cuore, dall'altra i lavoratori sfruttati e schiavizzati (come evidentemente la ridicola propaganda del Movimento 5 Stelle vorrebbe far credere). 
 
È lodevole notare che una parte della sinistra riformista stia finalmente abbandonando il pregiudizio storico sul ruolo delle aziende, viste non più come l'avversario o un ostacolo ai diritti umani, ma per quello che sono in realtà: l'unico vero motore produttivo in grado di rilanciare le sorti economiche ed occupazionali di un paese in difficoltà. Il lavoro non si crea dal nulla, nè lo Stato può inventarlo (soprattutto in tempi di debito eccessivo e necessaria spending review) nè tanto meno può decidere all'unanimità per legge le politiche di assunzione delle imprese.
 
In questo momento la priorità urgente del Governo, piuttosto che proteggere chi è già garantito o preoccuparsi dell'immediata stabilizzazione dei neo assunti, dovrebbe essere quella di creare le condizioni favorevoli affinchè i disoccupati, siano essi giovani neolaureati o con esperienza, possano ricollocarsi gradualmente sul mercato del lavoro.

Ecco che il decreto lavoro introduce almeno cinque punti cruciali:
 
1) I contratti a termine non richiederanno più una "giustificazione" per 36 mesi (prima il limite era di un anno e valeva solo per il primo rapporto). In pratica il datore di lavoro non dovrà indicare "le ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive" che rendono legittima l'apposizione di un termine al rapporto di lavoro. La soglia massima di "acausalità" coincide dunque con la durata massima del rapporto di lavoro a tempo previsto dal dlgs 368 del 2001.
 
2) Il numero delle proroghe dei contratti a termine passa a cinque (il Dl Poletti ne prevedeva inizialmente 8), da utilizzare nell'arco complessivo dei 36 mesi.
 
3) Viene introdotto un tetto del 20% dei rapporti a scadenza, che si calcola sul numero dei lavoratori a tempo indeterminato assunti all'inizio dell'anno, ad esclusione degli enti di ricerca (pubblici e privati) con personale tecnico. Un'azienda fino a 5 dipendenti può così assumere un lavoratore a termine.
 
4) Per chi supera il limite scatterà un'azione pecunaria, e non più l'obbligo di trasformazione a tempo indeterminato, come previsto inizialmente. L'importo della multa è fissato al 20% della retribuzione complessiva per il primo superamento nella singola unità produttiva ed aumenta fino alla metà per i casi successivi. Il gettito recuperato sarà destinato al Fondo sociale per occupazione e formazione previsto dalla legge n. 2 del 2009. Le aziende che sforano avrebbero comunque il tempo di mettersi in regola entro la fine dell'anno di accertamento. 
 
5) Il Dl Poletti, inoltre, rimodula le quote di stabilizzazione obbligatoria previste dal decreto Fornero (30% fino a luglio 2015, poi 50%). Nella versione originaria, più flessibile, erano state eliminate del tutto. Dopo averle ripristinate per le aziende a partire da 30 dipendenti, le successive modifiche l'hanno reso fortunatamente più ragionevole e si appliccherà solo alle aziende da 50 dipendenti in su.
 
Le altre novità sono di minor portata e riguardano soprattutto la modifica al Ddl Carrozza 104/2013 con il programma sperimentale di apprendistato in azienda per gli studenti di quarta e quinta superiore estesa anche agli allievi con meno di 18 anni, se finalizzata all'acquisizione del diploma. La formula di alternanza scuola-lavoro che tanti benefici ha portato in Germania. 

Infine, la riduzione dei contributi previdenziali ed assistenziali a carico dei datori di lavoro, che varia da un minimo del 25% (a fronte di un taglio dell'orario di almeno il 20%) ad un massimo del 40% (orario ridotto oltre il 30%), rifinanziando il Fondo sociale per l'occupazione con 15 milioni nel 2014 per alimentare la decontribuzione. Nel complesso si tratta di una riforma discreta, frutto di un compromesso faticoso, che rivaluta il ruolo dei contratti a termine e per usare le parole del giuslavorista Pietro Ichino "non li considera più socialmente pericolosi, superando così la presunzione negativa che dal 1962 per mezzo secolo ha accompagnato questi rapporti di lavoro"
 
L'Italia ha estremo bisogno di uscire dalla palude del conformismo ideologico, nella quale è stata insabbiata per troppi anni, di approcciarsi ai temi del lavoro in modo diverso, con una visione d'insieme più moderna e flessibile, fermo restando che "non può esserci ripresa senza impresa", ragion per cui non ha senso imporre rigidi paletti o limiti burocratici alle imprese (che si aggiungono alla già insostenibile pressione fiscale ed alle secchezze di un apparato amministrativo inefficiente che disincentiva la libera iniziativa imprenditoriale).

Il governo di Matteo Renzi ed una parte consistente del Partito Democratico ne sono consapevoli, è ora compito delle organizzazioni sindacali più arroccate alla strenua difesa di un'esistente che non c'è più, e ad un'opposizione più responsabile, propositiva e meno disfattista e folkloristica, fare finalmente la loro parte per rispondere in modo concreto ai bisogni di milioni di disoccupati, giovani, autonomi e precari. 
 
 

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