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“Un Vania”: allestimento dell’argentino Marcelo Savignone per il Napoli Teatro Festival

È un Cechov svecchiato e privo dei suoi elementi tradizionali quello che è andato in scena al Teatro Galleria Toledo il 17 e 18 giugno, firmato dal giovane regista argentino Marcelo Savignone e interamente in lingua spagnola.

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Per la settima edizione del Napoli Teatro Festival, nell’ambito del focus dedicato al drammaturgo russo Anton Cechov, Un Vania tenta di indagare su ciò che succederebbe se il protagonista – lo Zio Vanja, appunto – ascoltasse i suoi sogni e decidesse di ricominciare una nuova vita, lasciandosi alle spalle le disillusioni del passato. Da qui il continuo – e forse eccessivo – isterismo al quale si assiste durante tutta la rappresentazione, nonché il reiterato tentativo di omicidio ai danni di un Serebrjakov, cognato di Vanja, interpretato da un manichino. Con lui viene rappresentata tutta la passività dei personaggi cechoviani che, infelici, vorrebbero cambiare le loro sorti, senza provarci mai veramente. Marcelo Savignone afferma, parlando della pièce:

“Vania è colui che prova ad accettare per primo il cambiamento, colui che mette a rischio la stabilità, e per questo sarà visto come anormale. Tuttavia, i cambiamenti non si realizzano se non sono collettivi. Un Vania parla di tutti quei Vania che si perdono nel tempo della non azione incolpando gli altri e non si fanno carico della propria vita”.

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Marcelo Savignone e Paulina Torres in "Un Vania"

Savignone sfrutta quindi la leggerezza tipica della generazione di registi argentini alla quale appartiene – tra questi ricordiamo Claudio Tolcachir, presente al Napoli Teatro Festival nel 2012 per il focus sul teatro argentino – decontestualizzando il classico di Cechov e inserendolo in un ambiente casalingo quotidiano. Taglia alcuni dialoghi o li fa coprire con la musica ad alto volume. Inserisce la componente onirica e ludica (i personaggi giocano a freccette, usano i guantoni da boxe e lottano con i cuscini). Alleggerisce così parte della messinscena, osando molto, anzi troppo, in alcuni momenti salienti dello spettacolo. Il pubblico perde così di vista – per dirla tutta, non ritrova affatto – quella che era la vera profondità dei personaggi cechoviani, il loro dolore per le delusioni di una vita sempre uguale, dove non c’è posto per i sogni. Solo e costante, il già citato isterismo che accompagna tutta la performance.

È scontata l’idea di lasciare seduti ai lati del palcoscenico gli attori che non sono di scena, in attesa del loro turno. Alcuni effetti scenici, come il passaggio dall’interno di una stanza all’esterno tramite una porta mobile sul palcoscenico, insieme a qualche gioco di luci e al sorriso strappato al pubblico, sono tuttavia da ascrivere tra gli aspetti interessanti della regia firmata da Savignone.

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