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Ugo Mulas e la scena dell’arte: il ritrattista degli artisti

Si è conclusa il 5 ottobre la mostra alla Gam di Torino di uno dei più importanti fotografi del novecento, Ugo Mulas. Il viaggio tra 600 fotografie divise in due parti è stato curato da Pier Giovanni Castagnoli, Lucia Matino e Anna Mattirolo.

Cominciò così per Mulas la carriera nella fotografia, in quel bar Jamaica di Milano che un po’ era latteria, un po’ ritrovo di artisti. Allora studente ricevette una macchina fotografica per documentare gli incontri al caffè. Senza molta convinzione e molta umiltà da quel momento Ugo Mulas non vide altro se non la potenza di quel piccolo marchingegno, volendone imparare tutti i trucchi e le potenzialità. La mostra parte proprio da lì, dalla Milano degli anni cinquanta, la città del lavoro nei campi, della durezza del clima e dalla penombra dei lampioni. La Milano dei lavoratori e dei vagabondaggi, completamente notturna, quasi gemella di una New York al primo stadio.
Dall’urbano al ritratto, si snoda tra Burri, Fontana, Schifano e Luciano Fabbro il lavoro di studio degli artisti, mostrando ogni personaggio all’opera nel proprio studio, alle prese con le opere d’arte che li renderanno famosi o quelle che umanamente li rendono perplessi. De Chirico, la Factory di Andy Warhol, il fumetto di Lichtenstein nulla sfugge all’obbiettivo e all’occhio discreto ma profondo di Mulas che tutto scorge e studia con enorme senso del dettaglio e delicata introspezione. Eppure c’è spazio anche per l’ironia, rappresentata in "Key" di Joe Tilson del 1964 in cui l’autore della sua stessa opera fa capolino dal buco della serratura o in "New York" dello stesso anno in cui campeggia un poster per una pubblicità quantomai attuale "Keep America Strong" in cui la statua della libertà regge una lattina di spinaci.
Dal 1969 al 1972, gli ultimi anni della sua vita, l’autore si esercita in "Verifiche" in cui svela le prove sui tempi fotografici, i diaframmi e i vari usi della pellicola fino a tornare al suo amore per la città in quel "Campo Urbano" piovoso che avvolge quasi fosse una fiamma la persona ritratta al centro, negli anni dei tumulti sociali in cui la scritta colpo di stato è rappresentata in bianco rosso e verde in un’opera del 1969 ribattezzata "Segnaletica Orizzontale".
La vera novità sono i lavori a colori a cui il fotografo ha sempre preferito il bianco e nero, specialmente sovraesposto. In un’ala particolare della mostra, in nero lucido campeggiano delle piccole diapositive di fotografie a colori anche di esposizioni d’arte, piuttosto curioso dato che come fotografo della Biennale Mulas ha sempre preferito inquadrare gli artisti prima delle opere a cui davano vita. Per completare la carriera di questo poliedrico artista la mostra propone i suoi studi scenografici e le fotografie degli ambienti per Giro Di Vite, tutte in contrasto (senza photoshop lo si faceva eh ragazzi) e volutamente desolanti fino a quelle realizzate da Calder al teatro dell’opera di Roma.


La vera potenza della fotografia sta nel saper ritrarre le cose reali senza che la realtà ci metta troppo del suo, Mulas ci metteva anche qualcosa di suo, il senso dell’umorismo, delle forme e della purezza dell’arte.


"Ricordo la gioia che mi diede il vedere le mie prime fotografie riuscite: scoprivo in quelle immagini cose che non avevo previsto, e che vi erano entrate proprio in virtù del meccanismo, della macchina, dell’ottica, della chimica. E questo mi ha dato anche una sensazione di potenza. Capita, dopo un poco di tempo, che si dimentica quanto si deve alla macchina; ti sembra che tutto succeda per opera tua, e finisci col chiedere all’apparecchio di trasmetterti tutto il suo potere senza preoccuparti dello scopo, purché ti garantisca il successo. »
U.M.

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