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Tra proteste e conservazione: il caso di Bulgaria e Bosnia-Erzegovina

Di Jacopo Custodi

Nel mese di febbraio la Bosnia-Erzegovina fu improvvisamente attraversata da numerose e partecipate proteste che arrivarono sugli schermi di tutto il mondo e sembrarono segnare un punto di svolta nella storia del paese. L’evento appariva ancora più interessante in quanto avveniva in un paese post-socialista, rompendo la tradizionale diffidenza della popolazione verso le manifestazioni di piazza. Le proteste furono diffuse e prolungate, mosse da un’ostilità verso la corruzione, la mala politica e i disastrosi programmi di privatizzazione messi in campo dagli ultimi governi, e assunsero una chiara dinamica di classe, in quanto composte prevalentemente da lavoratori, disoccupati e studenti. In varie città nacquero assemblee spontanee basate sulla democrazia diretta, chiamate plenum, con dinamiche che portarono alcuni analisti a paragonarle ai Soviet della Russia prerivoluzionaria. Inoltre le mobilitazioni, anche se concentrate più nella Federazione di Bosnia ed Erzegovina e meno nella Repubblica Srpska (le due entità che compongono la Bosnia-Erzegovina), furono indipendenti dalle tensioni etniche che attanagliano il paese fin dalla sua nascita.

Otto mesi dopo, esattamente il 12 ottobre 2014, si sono tenute le elezioni politiche e, senza nessuno stravolgimento politico che le proteste di febbraio avevano fatto ipotizzare, ha prevalso l’istinto di conservazione: sia i grandi partiti nazionalisti delle rispettive comunità etniche sia i gruppi di potere che hanno governato il paese negli ultimi 20 anni sono rimasti al loro posto, lasciando un paese diviso e immobile, come spiega Matteo Tacconi analizzando dettagliatamente i risultati elettorali.

Una situazione simile ha caratterizzato un altro paese post-socialista, la Bulgaria, che nel 2013 fu travolta da grandi manifestazioni di piazza contro il carovita, la corruzione e l’oligarchia mafiosa che sembravano essere l’onda lunga orientale delle proteste degli indignados e di Occupy Wall Street del 2011. Le mobilitazioni durarono per più di un anno, favorendo un clima di instabilità politica capace di far cadere prima il governo di centro-destra e, appena un anno dopo, quello di centro-sinistra, portando quindi il paese ad una nuova tornata elettorale il 5 ottobre 2014. Dalle nuove elezioni è però uscita una Bulgaria stanca e con una democrazia rappresentativa decisamente inceppata: il partito di centro-destra guidato da Boyko Borisov (già primo ministro, poi costretto alle dimissioni nel 2013 in seguito alla prima ondata delle manifestazioni) si è classificato come primo partito, l’affluenza è stata bassa e sono entrate in parlamento numerose piccole formazioni, principalmente conservatrici e/o populiste, portando il numero di partiti presenti in parlamento a otto e creando così ulteriore instabilità; Borisov non ha infatti i numeri per governare da solo, e ad oggi un nuovo governo non è ancora stato formato.

Proteste imponenti, prolungate e dalle rivendicazioni a tratti contradditorie ma comunque progressiste (lotta alle privatizzazioni, alla corruzione e all’oligarchia) hanno quindi scosso i due paesi; eppure la sinistra locale in entrambi i casi non è riuscita ad ottenere nessuna crescita del consenso, nonostante molte delle rivendicazioni di piazza facciano parte dei suoi programmi politici. La sinistra politica è stata incapace di inserirsi come “soggetto forte” nelle proteste e ad apparire ai manifestanti come una alternativa credibile. Le ragioni sono varie e spesso collegate alle peculiarità del periodo socialista, ma ce n’è una che è doveroso sottolineare in quanto riguarda anche la sinistra occidentale, coi dovuti pesi e contrappesi. Vi è infatti una difficoltà reale della sinistra radicale tradizionale a integrarsi e a sostenere in maniera efficace queste nuove proteste di piazza, che nascono spesso in maniera semi-spontanea, prive di un’ideologia che le rappresenti, senza punti di riferimento politici o partiti di massa che le guidino e le organizzino. Tra la sinistra tradizionale e queste mobilitazioni vi è una diffidenza reciproca che spesso finisce per favorire movimenti di destra e nazionalisti, più abili a inserirsi in queste nuove mobilitazioni. E la sinistra rimane paralizzata, non riuscendo ad assumere una posizione efficace nello scontro fra queste ultime e il potere politico, priva di un pensiero forte e incapace di rinnovarsi; al punto da arrivare in alcuni casi a guardare con più simpatia le élite politiche.

È il caso del piccolo Partito Comunista Bulgaro, che preferisce allearsi con il Partito Socialista, uno dei grandi partiti contro cui le proteste erano rivolte, composto da gran parte dell’élite politica che aveva governato il paese nell’era comunista, ora convertitasi al neoliberalismo e al sistema oligarchico. Un altro esempio è il ben più forte Partito Comunista della Federazione Russa, che, costretto a scegliere tra le coraggiose manifestazioni antigovernative del 2013 e Putin, preferì alla fine quest’ultimo, abbandonando i compagni del combattivo Fronte di Sinistra alla repressione del regime russo.

Qualche grigio uomo d’apparato di queste organizzazioni di sinistra probabilmente replicherebbe che non avrebbe avuto senso unirsi a queste mobilitazioni, visto che non riescono ad incidere nel sistema politico, prive come sono di finalità elettorale.

È una provocazione, ma con la fine della Guerra Fredda e il crollo del socialismo reale la sinistra e le nuove mobilitazioni sociali faticano effettivamente ad incontrarsi e a convergere. Il problema è reale e dovrebbe essere discusso maggiormente da una sinistra che voglia ancora porsi l’obiettivo politico di “abolire lo stato di cose presente”, ad est come ad ovest.

 

Il blog di Jacopo Custodi lo trovate qui

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