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Talebani, aria di vittoria

Noi vediamo la battaglia come un culto, se un fratello cade qualcuno camminerà nelle sue scarpe”. Parola di capo talebano e già non occorre altro. Perché in quest’affermazione rilasciata a un reporter del New York Times due mesi fa, quando i turbanti aspettavano la liberazione dei cinquemila miliziani concordata a Doha con Khalilzad, mentre Ghani gliela bloccava tanto per darsi il tono di quello che conta, c’è l’idea del presente afghano, coi marines che si ritirano e il governo fantoccio che crolla, come il regime filosovietico di Najimbullah dopo la partenza dell’Armata Rossa.

 Ripensando alle varie fasi della guerra che gli americani vogliono scrollarsi di dosso perché dura più di quella vietnamita e per evitare fughe precipitose come a Saigon, l’attuale staff della Casa Bianca ha intrapreso un lungo percorso, durato quasi due anni, di patteggiamento col demone talebano. Sebbene nella storia afghana, passata e recente, nulla si può dare per scontato l’US Army lascerà la terra dell’Hindu-Kush, magari concordando di tenere tutte o alcune delle basi aeree strategiche, ma togliendo dalla capitale i loro uomini armati. Cosa alla quale i turbanti tengono di più perché con quelle partenze potranno dire d’aver liberato il Paese dagli occupanti, come accadde ai mujaheddin nel 1989. Una mossa strategica e propagandistica non da poco. Sono stati strategici gli studenti coranici, anche quando nel biennio 2010-2011 l’offensiva Nato è diventata più intensa con centomila militari americani sul terreno e un esercito locale portato a trecentomila unità. Che poi quest’ultimo fosse un bluff è uno dei fattori che spiega l’attuale situazione.

I taliban, già prima che morisse il leader carismatico mullah Omar, andavano a distinguere un potere centrale collocato nei territori delle Fata e a Quetta, da gruppi d’intervento locali che, pur fra gravi perdite continuavano a battagliare nelle varie province. Certo, non si facevano scrupoli, cercavano risorse in ogni modo, recuperando denaro dal mercato internazionale dell’oppio, contrabbandando armi strappate alle forniture statunitensi per l’esercito di Kabul. Diventando flessibili verso coloro che si davano a una sorta di part-time della guerriglia, giovani che conservavano un lavoro nei villaggi di provenienza (agricoltore, pastore, mercante) e partecipavano ad azioni armate. Soprattutto dopo la scomparsa di Omar è prevalsa una tendenza a favorire un network resistente decentralizzato che risolve problemi locali e offre credibilità al disegno politico generale. Questo svelano, ora che c’è aria di vittoria, alcuni leader talib e gli analisti annuiscono visto che alle cinquantamila unità effettive accreditate, sicuramente se ne possono aggiungere altrettante se non di più. Sono i giovani che le famiglie di molte province hanno offerto a una guerriglia passata negli ultimi cinque anni dall’apparire un contropotere al governo di Kabul all’essere il potere effettivo. Un potere che controlla il territorio, regola dispute, riscuote tasse, investe denaro per certi servizi anche minimi di sanità e scuola, cose che in periferia il governo promette e non mantiene.

E poi i denari di Ghani provengono dagli aiuti occidentali, su questo punto la propaganda talebana è spietata, sostenendo che quel denaro viene da coloro che sganciano le bombe sulla gente. Il combattentismo talebano sta sui social media, visitati dagli afghani tramite i cellulari, mostra operazioni repressive del governo di Kabul e dell’alleato americano, girate artigianalmente col telefonino dai propri miliziani e inserite in rete. Divulgando quei video parte la campagna per il reclutamento: unirsi agli insorti per difendere la vita dei civili. Alcuni filmati raccontano che mullah Akhundzada (l’attuale leader talebano) ha offerto suo figlio, kamikaze, per il Jihad, mentre i militari pro governativi inviano la prole a vivere e studiare all’estero. Propaganda sì, ma propaganda che paga. E se i negoziatori di Doha nei primi mesi tendevano a discutere coi comandanti ogni passaggio degli accordi per evitare dissidenze e ribellioni, ora Baradar, che ha guidato la delegazione al cospetto di Khalilzad, fa riflettere il braccio militare che se il movimento avesse puntato tutto sulla forza non ci sarebbe stato bisogno di patteggiare ogni parola con gli americani. Ora che il ritorno a Kabul degli sconfitti del 2001 sembra a portata di mano un nemico possono temere anch’essi: il caos. Quello che mise gli uni contro gli altri i Signori della guerra nel periodo della guerra civile. Avere un nemico unico rende tutto più semplice. Contrapporsi in fazioni concorrenti è la dannazione più frequente della guerriglia.

Enrico Campofreda

 

 

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