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Sei Nazioni, chi è il CT dell’Italia: Brunel, fra rugby e Luna

 

Ha mani forti, spesse, callose, contadine, rurali, georgiche, che sanno di terra e di viti, di Pirenei, luoghi ciclistici e rugbistici, dunque di fatica e sacrificio. Ha occhi vivi, profondi, di chi ne ha viste ma ne ha anche sognate, cercate, esplorate, di chi ha guardato l’orizzonte per poter poi scavare e controllare quello che c’è intorno a sé. Ha un’altezza che una volta si sarebbe detto da mediano di mischia, e se è per questo del mediano di mischia ha anche la schiena lunga di chi ha il compito di trasmettere il pallone dalle trincee degli avanti alle praterie dei trequarti, e del mediano di mischia ha anche le gambe incurvate alla cowboy di chi è stato in sella – lui in sella a tante squadre, dal Perpignan in prima persona alla Francia in comitato – a domare e indirizzare. Ha cinquantotto anni, e a volte sembra dimostrarne di più, il che è rassicurante, è affettuoso, è terribilmente umano in un mondo palestrato, anabolizzato, lampadato, falsato dal sembrare più che dall’essere, dall’estetica più che dall’etica, dall’abito più che dal monaco.

A me Jacques Brunel piace. Sarà per la mano solidale, per gli occhi miopi eppure lungimiranti, per l’altezza più morale che fisica, sarà per quel nome da santo e anche da corridore (Anquetil), per quel cognome che sa di vino, e che vino (Brunel di Montalcino). Ma quello che conquista è la sua onestà. Non che gli altri recenti commissari tecnici della Nazionale italiano non lo fossero, ma riuscivano – e forse è una qualità, o un requisito professionale – a inserire una barriera, un filtro, un cancello fra loro e gli interlocutori, fra loro e anche la verità, e se la verità non esiste allora parliamo di sincerità. In effetti: la diplomazia è un freno a disco contro la spontaneità. E la spontaneità non è mai diplomatica.

Finora c’è poco da celebrare: quattro partite, quattro sconfitte. Più o meno onorevoli. Ma siamo alle solite. A commentare con aggettivi, a ricamare con intuizioni, a trasformare squarci in cieli, ad allargare spifferi in portoni. Chiunque avrebbe pronosticato le quattro sconfitte, Francia Irlanda e Galles in trasferta, Inghilterra in casa, tutto ce lo saremmo giocati contro la Scozia in casa, e così è. Ma se solo (solo?) avessimo vinto contro l’Inghilterra, sotto la neve, all’Olimpico, a quest’ora saremmo in viaggio sulla Luna. E qualche errore l’ha commesso anche Brunel.

Fin dal primo giorno, Brunel ha pensato a una squadra più equilibrata, fra mischia e trequarti, fra difesa e attacco, fra gioco alla mano e al piede, fra ossa muscoli e idea gesto, cioè fra fisico e scientifico, fra gambe e cuore, fra braccia e testa, fra Prima guerra mondiale e Wall Street. Che non si tratti di un passaggio facile, lo si è visto, lo si vede. Ma si è visto anche più coraggio, più volontà, più coscienza a esplorare certe zone del campo dove non si osava sconfinare, o perfino più presunzione nel tentare sfondamenti a campo aperto, accettando i rischi del fallimento o i pericoli del ribaltamento. Perdere di uno o di dieci è materia statistica. Perdere di uno o vincere di uno è affare statale.

Non ha mai cercato scuse, Brunel. Ha spiegato, ha interpretato, ha cercato nuove soluzioni. Lo ha fatto anche in partita, e forse questo è stato un errore. Per esempio: contro l’Inghilterra sarebbe stato meglio continuare con Burton invece che provare Botes. Ma è facile scriverlo dopo. Per esempio: a occhio, la coppia di mediani più sinergica e completa, più in sintonia, è Botes-Burton, ma bisognerebbe anche sapere se ci sono state influenze, condizionamenti, prevaricazioni diplomatiche di cui lo stesso Brunel, sempre a occhio, potrebbe essere vittima, mai artefice. Quando avrà l’opportunità di scegliersi i collaboratori più stretti, forse finalmente ne sapremo qualcosa in più.

Brunel che la prima cosa che ha fatto è stato imparare l’italiano. Brunel che non dice mai parole a caso, né in francese né in italiano. Brunel che guarda negli occhi e cerca nell’anima. Brunel che nel rugby cerca il ritmo e l’intensità e la perfezione di una musica, della musica, fosse anche la musica del silenzio. Brunel che lotta contro il tempo, che crede nei giovani, che sa quanto siano più importanti tanti piccoli passi avanti che non uno solo gigantesco, che non si chiude in una cattedrale a contemplare ma che va in giro per i campi a predicare, come un prete di campagna, come un medico condotto, come un allenatore di rugby.

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