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Roma-Ostia: diario di... scarpa

Tredicimila, che a dirla così non si sa bene quanti possano essere. Un'idea lontana la si ha mentre si aspetta il proprio turno, poi nel capire cosa avviene al di là da te grazie alle frasi colte tra la folla, ma senza vedere nulla, infine dal leggero calpestio che diventa spazio davanti alle scarpe da corsa. I passi sono saltelli quindi corte falcate, mentre si guadagna distanza e aria intorno. Avviene tutto con velocità progressiva, proporzionale al ritmo dei pensieri e alla percezione del silenzio che d'improvviso ti avvolge dall'interno. Perché in quel momento, nell'attimo in cui si inizia a correre, ci si allontana da tutto e ciò che è al di fuori da se stessi diventa relativo ad un unico obiettivo: arrivare sino alla fine.

La Roma-Ostia è prima di tutto una sensazione in divenire. Lo sport diventa un appuntamento "mondano" dove a fare da protagonista non è tanto l'agonismo quanto l'emozione di esserci. Già all'alba per i preparativi e circa due ore prima si intravedono gli atleti, a gruppi allegri come fossero tutti compagni di scuola alla gita di fine anno. La temperatura mite incoraggia gli audaci in canottiera, qualcuno sfida l'impegno con una parrucca colorata, qualcuno avvolto in carte di alluminio per trattenere il tepore del corpo, molti con impalpabili impermiabili arancioni trovati nel pacco gara: passa un'ora e corrono dovunque. Fino alla prima griglia di partenza. Poi arriva la seconda e la terza. Sull'asfalto, come gli abiti di novelli supereroi, resta ciò che era servito per tenersi caldi nell'attesa dello starter. Superata la partenza si ha la misura di cosa siano 13000 persone che corrono: la coda variopinta di un animale fantastico, forse un drago di cui non si scorge null'altro, ma di cui si percepisce tutta l'energia. 

Si corre a tratti dribblando, per superare chi ha un ritmo diverso dal proprio, si cercano i compagni di squadra, si guarda l'orologio al polso e si misura la propria forza. E nel frattempo sono già volati i primi chilometri, mentre qualcuno grida che in fondo siamo arrivati con l'ansia di chi la strada se la vorrebbe arrotolare sotto il braccio, come fosse carta, mentre con gli occhi non vede neanche la fine dei 15 km che separano dal mare. Bisogna solo correre e non perdersi nel timore di cedere. E intanto resta tutto il tempo per leggere i nomi delle società dell'atleta davanti, di quello che si sorpassa, di quell'altro che sembra più lento e invece va tanto che non lo si riesce a raggiungere.

L'organizzazione è incisiva: ci si sente sempre protetti. Ai lati della strada c'è sempre una coppia di soccorritori, volontari di croce rossa, polizia municipale, organizzatori e gli immancabili peacemaker lungo il percorso che sventolano la loro velocità e incitano con consigli e rassicurazioni i runner intorno. Dopo il 7 km il primo ristoro: si calpestano bicchieri di carta come un rito di propiziazione a garanzia di essere ancora in gara, di essere ancora parte di una interminabile colonna in marcia. Anche il proprio bicchiere sarà lì a testimoniare un km in più messo sotto le scarpe.

Viene da pensare alle fila dell'esercito romano in marcia verso le colonie, ai reggimenti pronti alla battaglia, alle interminabili distanze raggiunte a passo sostenuto per sedare rivolte e assicurare confini traballanti, alla fatica che li avrà decimati. Si è arrivati al decimo chilometro e il ritmo di gara scende con la stessa velocità con cui si avverte la pendenza dell'asfalto. E' la salita di cui tanto si racconta, quella che prelude alla metà del percorso.

Sfreccia qualcuno, di altri si legge con calma il motivo per cui corre scritto sull'apposita targhetta distribuita alla consegna del pettorale. Ogni schiena ha le sue buone ragioni: onnipresente la voglia di essere liberi, nella corsa. Di sfidare la "tortura" mettendo in palio il raggiungimento dei propri obiettivi personali, fosse anche il senso di orgoglio e autostima personali. Per molti la soddisfazione è la gioia di essere riconosciuti eroi per un giorno dai propri figli.

Oltre il 14° chilometro una squadra di soccorso circonda un corridore steso per terra. si crea intorno uno spazio invalicabile. Tutti gli atleti passano senza fissare lo sguardo. Si percepisce il senso di rispetto e il sostegno silenzioso verso chi sta lì fermo, per terra, circondato da immediata assistenza sanitaria. Non resta inosservato il dramma momentaneo, tutti ne portano un pezzo con sé, tra le proprie motivazioni, fino al traguardo e anche dopo. Si corre anche per lui.

Passano i ristori di arance, passano le spugne rigonfie d'acqua e passa anche un mezzo passeggino spinto da un papà che guarda lontano, incurante del fagottino addormentato sulla cui copertina è appuntato il pettorale. Iniziano a far male le gambe, i primi incitamenti euforici si sono trasformati in esortazioni accorate. Tra le tante, il famigerato "forza, fallo per me" e infatti non si ferma nessuno. Qualcuno a bordo strada al massimo cammina. E poi riprende.

Agli ultimi semafori piccoli accrocchi di parenti o appassionati che applaudono e fanno complimenti. Danno l'idea di essere al traguardo. Gli ultimi km dopo il 18esimo sembrano essere più lunghi. Si supera e si è superati: una staffetta di coraggio che invoglia a non mollare ancora. Il tempo si dilata appresso alla distanza. La striscia di un celeste differente dal cielo aiuta a pensare che ci siamo quasi. E finalmente sono finiti pure gli alberi che disegnano la strada. Ostia. Il lungomare. Le siepi e un'idea di guard rail lasciano intravedere gli altri partecipanti nel senso opposto. Mentre viene la tentazione di passare attraverso il varco per tagliare qualche metro, si agogna la curva che fa invertire la marcia. Ci si accalca sul lato corto e sollevando lo sguardo dalle scarpe finalmente il traguardo.

Non so quanti metri ho corso da quel momento, ma so che non ho più staccato lo sguardo dalle mie gambe a cui ho imposto l'ultimo sforzo. Non c'era più nessuno avanti o dietro o ai lati. c'era una fatica costante e l'idea che mi perseguitava dal 16 km: sono solo 5! Come quelli che faccio al mattino quando penso che ci vuole meno di mezz'ora all'alba e godo del mio personalissimo lusso: imboccare la discesa e avere ai piedi il mare, mentre il sole sorge, la luna spesso è ancora fissa in cielo e di lì a pochissimo sarò sotto la doccia e poi a svegliare il resto della casa.

Ancora le mie gambe e quel pallone gonfiato di traguardo che si allontanava. improvvisamente un lampo blu tra l'asfalto e ho agguantato il polso con la mano destra pronta a bloccare il timer del garmin. Il tempo si è fermato quando il polpastrello ha sentito tutta la pressione del pulsante al lato della ghiera. L'energia che mi ha tirato per 21 km era tutta lì, condensata come dentro un atomo, menre il cervello andava come un disco incantato: ci sei arrivata.

Mi sono bloccata subito dopo aver oltrepassato la fatidica soglia. Per un attimo ho aspettato che accadesse qualcosa, ma poi ho realizzato che avevo solo una gran sete. Guardavo gli altri in gruppi a raccontarsi, mentre mi godevo la mia solitudine deliziata da tutto ciò che di liquido congedava l'arsura improvvisa. Ero profondamente serena. Avevo corso, diluendo lungo il percorso tutta la tensione accumulata nel timore di non farcela. Ripensavo al numero:13000. Ora ne avevo una idea più precisa. Avevo corso con chissà quanti di quel numero. E da loro avevo tratto la mia forza. Come se mi fossi aggrappata a ciascuno di loro. La trentottesima Roma - Ostia. 12999 partecipanti. Più io.

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