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"Mal di lavoro": uno studio tra la sofferenza e la precarietà

Renato Curcio presenta il suo libro "Mal di lavoro" al secondo appuntamento di Apriticielo, laboratorio di idee e progetti del TaTà di Taranto.

Al secondo appuntamento di “Apriticielo” – laboratorio di cittadinanza attiva del Crest, contenitore di incontri, proiezioni cinematografiche, letture pubbliche, con l’obiettivo di pensare una città diversa e possibile – a Taranto è tornato Renato Curcio. Dopo oltre due anni dalla presentazione di uno dei suoi lavori sul razzismo di matrice italica, Curcio ha tenuto alta l’attenzione del pubblico del TaTà sul più classico dei temi socio-politici contemporanei: il lavoro.

“Mal di lavoro” è il titolo della ricerca sociologica (in uscita il prossimo mese di febbraio per "Sensibili alle foglie"), che si interroga sulla sofferenza e precarietà delle attuali condizioni di lavoro, sul cambiamento delle modalità organizzative e contrattuali, sulla rimozione del senso e valore del lavoro e del lavoratore.

Renato Curcio è sempre pacato nella voce come nelle parole che gli scivolano fuori con un vago accento torinese, accompagnate dal continuo movimento della mano libera dal microfono. Introduce il mondo del lavoro italiano dagli anni ‘30 in poi, soffermandosi su come siano mutati nella sostanza i luoghi e le norme che disciplinano il lavoro. Le grandi fabbriche di un tempo si sono trasformate in aziende dalle molteplici attività, mentre la “sospensione del diritto” ha permesso rapidi e laceranti alterazioni delle disposizioni contrattuali. La parcellizzazione del lavoro, le flessibilità orarie, le diverse forme di accordi lavorativi da cui emerge ciò che noi, a Taranto, conosciamo bene: il “ricatto” lavorativo.

Restare nel mondo del lavoro diventa un gioco di equilibrio. Le regole sono sottoscritte singolarmente. Si sgretola il gruppo dei lavoratori nel momento in cui il potere del vertice divide gli operai in chi accetta e chi rifiuta”. Curcio analizza come tutto ciò influisca sull’identità del lavoratore che ha perso lo spirito e la solidarietà del gruppo, oltre che la dignità. “Implicitamente vi è un vuoto sociale. Lo Stato non è presente e il lavoratore è solo”. Ascoltandolo sembra di sentire la critica socio-letteraria di un romanzo verista. Fanno capolino la desolazione degli operai di fine Ottocento, sfruttati e oltraggiati nell’assenza di tutela istituzionale. Un tempo si moriva di stenti, oggi per la sopraffazione delle regole della produzione asservita al potere finanziario.

Le regole del capitalismo finanziario arrivano a coinvolgere la vita psico-affettiva del lavoratore”. Alla riduzione del tempo per se stessi corrisponde l’aumento del tempo per raggiungere un posto di lavoro, ma anche lo squilibrio tra retribuzione e durata della giornata lavorativa, il conflitto fra diritto al lavoro e diritto alla salute, l’assuefazione all’idea che il raffinato assioma “il lavoro nobilita l’uomo” passi per l’afflizione e non la gratificazione.

La condizione lavorativa è vincolata al processo di produzione. I lavoratori sono integrati in un sistema capitalistico in cui una maggiore valorizzazione del capitale corrisponde ad un minore valore del lavoro. Torna in mente il modello industriale americano degli anni ’30, l’uso strumentale del lavoratore, come fosse una macchina, gli studi di Weber e Taylor. Pensate ad un call center, al modo crudele di incentivare chi produce e disprezzare chi non ce la fa a reggere i ritmi del gruppo. Il lavoratore vive la competizione professionale come una lotta per la sopravvivenza nel mondo del lavoro, perché deve garantire produttività a discapito del suo valore di uomo”.

L’analisi di Curcio è affilata. Traccia con linearità una relazione secca tra ragioni della finanza e virtù umane, tra piano dell’economia e piano della vita, facendo riferimento a letteratura di anni caldi senza velleità trasgressive, purificando tutto alla luce dell’attenzione ai più deboli.

Le relazioni non si giocano sulla produttività. Marx diceva che la democrazia reale tiene presente che non tutti partecipano nella stessa maniera alla produttività della società. Questo non vuol dire essere fuori gioco, poiché i lavoratori sono esseri umani non dei listini di borsa. Il malessere dei lavoratori precari, dei cassintegrati, di coloro che sono vittime degli abusi dei vertici è sintomo di una sofferenza che non deve necessariamente essere medicalizzata o considerata debolezza. Occorre sottoporre queste questioni a riflessioni comuni.

Gli applausi finali precedono inevitabili considerazioni sulla questione Ilva su cui Curcio chiosa con una semplice attribuzione di priorità alla responsabilità di ciascun cittadino, preponderante rispetto all’interrogarsi su futuribili soluzioni. “La mia unica libertà è assumere la responsabilità sui miei atti” afferma con serenità e si solleva anche la mente dei più perplessi al pensiero che il suo dissenso efferato si sia trasformato nello studio dei mali della società. La sua lotta continua nell’evoluzione di un pensiero pacifico, eppure inesorabilmente sovversivo. È il rifiuto di sottostare a leggi di mercato malsane, ponderate sul valore economico e non sul valore dell’uomo, giocate sul continuo innalzamento della posta in gioco, sulla velocità dei consumi, sulla totale mancanza di limiti.

Tre domande all’autore 

Cosa è Sensibili alle foglie?

Sensibili alle foglie è una cooperativa di produzione e lavoro che si misura sul territorio. Noi ci interroghiamo sui vissuti dei gruppi sociali, sulle risposte di adattamento delle persone che vivono esperienze estreme o di disagio. È un laboratorio di ricerca sociale che pubblica libri, promuove mostre didattiche e opera nella formazione. Alcune ricerche nascono dai lavoratori che decidono di rendere pubblici i libri, non attraverso le grandi distribuzioni editoriali, ma portandoli in giro per l’Italia o in Francia, Spagna, Croazia, all’interno di realtà lavorative simili. È importante il confronto con altri lavoratori: è un modo per intervenire nelle problematiche. Riteniamo che se non si conoscono le dinamiche del luogo in cui si lavora, non si potrà venire fuori da meccanismi oppressivi.

I vostri lavori non sono, quindi, tra le novità editoriali in libreria?

Nel 2003 siamo usciti dalla grande distribuzione come la Feltrinelli. A noi interessa una modalità di rapporto diretto con la gente, raccogliere sguardi, storie, punti critici. Produciamo sistemi di relazioni viventi che a loro volta servono per comunicare e costruire altre ricerche. Insomma, produciamo non ricchezza economica, ma ricchezza relazionale.

E questa non è proprio una strategia editoriale vincente…

Riteniamo necessario costruire legami, produrre luoghi che creino confronto e conflitto, cantieri di ricerca che siano al servizio della società. Il ricatto non obbliga nessuno ad accettarlo: ecco perché questi “legami” sono necessari, soprattutto all’interno delle istituzioni e tra cittadini.

 

 

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