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Riconversione tecnologica per rinnovabili: soluzione al 15%

Qualche idea per le rinnovabili in un quadro desolato e sempre più precario.

L'Italia è senza governo e fino a qualche giorno fa anche senza Papa ma sicuramente non è senza una bussola nel progresso digitale.

Il nostro si conferma un paese istintivamente flessibile, capace di grandi torsioni, anche inconsapevoli. Lo fece nel dopo guerra, quando, quasi senza accorgersene, passò da paese rurale a potenza industriale. Lo fece all'inizio degli anni '60, quando si trovò a recitare un ruolo da protagonista nel campo della geopolitica petrolifera, con l'Eni di Mattei, del pionierismo informatico, con l'Olivetti del grande Adriano e nel campo spaziale con i satelliti di Broglio.

Negli anni '80, nell'indifferenza generale, l'Italia venne riconosciuta come potenza nel campo delle nuove culture industriali del gusto, dal design all'enogastronomia, alla moda. Questi primati rimangono, però, sempre orfani: senza padri politici o madri istituzionali che reggano il peso della competizione internazionale.
Qualche giorno fa un altro riconoscimento è caduto sulle spalle del nostro paese: la Pearson, il gruppo inglese leader nel campo dell'editoria globale e dei servizi di formazione a distanza, ci ha indicato come il sistema europeo più versatile e predisposto all'esplosione della cultura digitale.

Siamo infatti la comunità dove i terminali digitali - tablet e smartphone - sono più diffusi ed utilizzati per andare in rete e la scuola potrebbe, in poco tempo, scavallare ogni ostacolo strumentale e passare rapidamente ad una metodologia formativa digitale e multimediale.

Ovviamente anche questo dato ci è caduto addosso nell'incredulità generale.
Come i risultati elettorali. 

Non a caso la matrice è la stessa: una consapevolezza digitale superiore e più pervasiva delle attese.
Un paradosso che ci perserguita da anni: quando facciamo male ce ne accorgiamo tutti, quando facciamo bene non cogliamo l'opportunità. 

Pensiamo a quello che è accaduto nel campo delle energie rinnovabili: faticosamente abbiamo risalito la china ed abbiamo accumulato una grande potenza produttiva installata. Ma non riusciamo ad adattare il sistema e le norme a questo standard. 

Come diceva Darwin “nel corso della lunga storia dell'umanità (così come degli animali) le speci che hanno imparato a collaborare e ad improvvisare in maniera efficace alla fine hanno avuto la meglio”. Cooperazione e improvvisazione, sembra l'identikit del capitale sociale italiano.


Ma allora perché non si innesta il ciclo virtuoso? 

Perché, come sempre in economia, ogni azione induce ad un'azione eguale e contraria, che si oppone al cambiamento in nome di interessi da tutelare.
Questo è il dato.

Nel capo energetico abbiamo sul tavolo 10 miliardi di contributi annui, che in realtà sono investimenti.
Contro questo bersaglio la furia grillesca delle lobby legate ai monopoli di Enel e Terna si sono abbattute con violenza, sia con il governo Prodi, che con Berlusconi ed infine con Monti. L'obbiettivo non era quello di eliminare le rinnovabili ma di ridurle ad una variabile del sistema governabile centralmente, direttamente dai monopoli. 

Per questo si è alzato il fuoco di sbarramento contro il motore che stava facendo del nostro paese un grande laboratorio di riconversione energetica, con le famigerate leggi che presero forma con il decreto Romani.
Ma non basta, bisognava stroncare anche il patto con il territorio: per questo si è scatenata una caccia all'imprenditore fotovoltaico, con giudici che indiscriminatamente hanno messo nello stesso mazzo speculatori, avventurieri e chi invece aveva investito del suo.

In particolare in Puglia abbiamo assistito alla gambizzazione di interi gruppi industriali e al blocco dello sviluppo del settore a colpi di denunce e di sequestri.
Ora il punto è come ripartire.

Vedo che la logica delle cose comunque si impone e si sta aprendo la strada ad una normalizzazione legislativa.

Ma dobbiamo recuperare il tempo perduto.

Dobbiamo in tre anni riconvertire i campi fotovoltaici a soluzioni integrate con le città, avviando la transizione dal campo al tetto. Per questo credo che sia ipotizzabile che almeno il 15% dei contributi residui, diciamo 1,5 miliardi di euro l'anno, vadano a finanziarie forme di riconversione tecnologica, che sostengano gli sforzi delle amministrazioni locali e delle multiutility per avviare un piano di messa al sole di interi quartieri.
Potrebbe essere un punto in comune nel programma di governo in discussione?

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