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(Pre)destinazioni da silenzio nella narrativa italiana di oggi: confronto con Roberto Alajmo - parte I

Un inizio "vero" non c’è. La questione, le questioni, non hanno nascita ma continuazioni. Eppure basta una lettura, un passaggio come tanti, nell’(il)limitata rete virtuale, basta lo scorrere veloce degli occhi sulle prime righe.
 
"Il libro di Nicola Gardini, “I baroni” racconta una storia vera: come e perché dall’Università di Palermo il protagonista sia dovuto scappare e invece ad Oxford lo abbiano accolto a braccia aperte. Un tema di grande attualità, quindi. E il volume è pubblicato da un editore di rilievo nazionale: Feltrinelli."
 
Lo spazio web è quello di Roberto Alajmo, scrittore e giornalista, osservatore attento e acuto che non risparmia commenti, critiche e analisi. Il titolo del brevissimo pezzo è “non tanto strana, a pensarci bene”. Ma non è una donna, il problema. Ammesso che lo sia, problema. Piuttosto consuetudine vigliacca.
Per capire, affondare in acque profonde, proseguo nella lettura.
 
"Da quando è uscito, sei mesi fa, nessun giornale siciliano ha ritenuto di occuparsene. Nemmeno un rigo. Ora, non dico che il libro sia bello o brutto, che dica cose giuste o sbagliate. Mi pare solo che il tema sia interessante, degno di essere discusso specialmente sulla stampa regionale. E siccome sui giornali siciliani ci si occupa persino, e in prima pagina, della scomparsa dei fermacarte dalle moderne scrivanie (sic), a me la cosa pare strana. "

Allora si tratta di libri e basta. Beep. Risposta sbagliata.
Rintraccio qualche informazione su ’I baroni’ :
 
Nicola è un giovane studioso. Ha una laurea italiana e un dottorato americano. Tutto ciò che desidera è concentrarsi sulle sue ricerche, condividerle con altri studiosi, trasmettere ai più giovani ciò che ha imparato dai suoi maestri. Ma in Italia non è possibile perché l’Università italiana è sempre meno il luogo della ricerca, dell’insegnamento, della trasmissione del sapere.
Nell’Università italiana non governano il merito e la competenza. Nell’Università italiana governano i "baroni": uomini di potere abituati a gestire l’Accademia come un giocattolo personale, a premiare la fedeltà anziché la libertà, a preferire un mediocre candidato "locale" ad un ottimo candidato "esterno" in barba all’interesse degli studenti e anche all’interesse generale.
Questo libro è un documento unico. È una denuncia e una confessione. Ma soprattutto è una storia vera: il racconto paradossale e a tratti kafkiano di dieci anni passati a barcamenarsi tra concorsi veri o fasulli, promesse fatte e non mantenute, vessazioni inutili, cose non dette o cose mandate a dire. Dove tutto conta tranne ciò che dovrebbe contare: l’originalità della ricerca, la dedizione all’insegnamento. Il lieto fine è purtroppo amaro. Nicola diventa professore ad Oxford, dove vince un concorso pur non avendo conoscenze. E l’Italia perde l’ennesimo "cervello", l’ennesimo studioso regalato ad un Paese che non ha speso nulla per formarlo ma che ne sa mettere a frutto doti e lavoro (fonte: Ibs).
 
Ah ecco, una storia vera, la solita storia. Beep.
Mi rimbalza una frase, tra le altre: “nessun giornale siciliano ha ritenuto di occuparsene”. Dunque eccolo il nocciolo: i libri e le storie (pre)destinati a restare sconosciuti. Beep beep beep.
 
In ogni caso, se anche così fosse, Gardini se ne intende. Di sconosciuti ne ha scritto in un altro libro (Lo sconosciuto, Sironi, 2007 che lessi tempo fa). La "questione" in effetti, passa attraverso diversi "baroni" e moltissimi "Gardini".
 
Le ragioni, quanto meno le macro ragioni, per cui deliberatamente un libro viene oscurato, ignorato, non menzionato (neanche per sbaglio) nelle comunicazioni di massa (web escluso dove le schegge impazzite, i capitani coraggiosi che ignorano le leggi di potere, quelle dei grandi, ancora si ostinano a leggere, scrivere e ragionare per più di cinque minuti con la propria testa: loro –pare– sopravvivano) sono due: complicazioni e pericolosità.
 
La prima è colpa dell’autore e si liquida facilmente come motivazione. Se una storia è difficile, simbolica, non da lettura di massa, se volutamente l’autore si è dato da fare per variare nello stile, ricercare fessure, strati, simboli, metafore o chissà quante altre diavolerie da intellettuale, allora si merita l’oblio, la condizione statica di (s)conosciuto.
 
L’altra ragione invece no, è più colpa della società. E anche qui la si chiude in fretta. Ci sono storie, specie se fondate, avvallate da testimonianze, voci vere, prestate alla narrativa che è anche invettiva ed estro; ci sono storie che non devono essere scritte, raccontate. Non dovrebbero. Perché finisce sempre che qualche corsaro idealista (maschio o femmina che sia) infrange le regole non protocollate di un’Italia che di ragionare non ha poi tanta voglia ma che soprattutto non deve sapere e ragionare. Si inizia definendole storie vere poi le si passano al setaccio individuando l’elemento reale, catalogandolo e decidendo il grado di buio a cui destinarle. Questo a grandi linee è il nocciolo a cui si riferisce Alajmo o meglio, è quello a cui ho pensato io, leggendolo.

L’assurdità evidente sta davanti al banco, accanto al registratore di cassa. Visto? Ignorare l’inignorabile evitando che gli altri, le masse appunto, si debbano sforzare di capire, tentare ragionamenti (anche superficiali, per iniziare) o peggio, sentire l’urgente e imprescindibile bisogno di confrontarsi scatenando un’eventuale diffusione a macchia d’olio.

Scrivere non significa essere letti. Certo.
Invaghirsi di una storia al punto da dedicarle mesi, anni, fino alla stesura definita, non vincola altri allo stesso tipo e grado di innamoramento o interesse. Certo.
Se poi si è scritto di sé o di qualcosa conosciuta direttamente vivendo (guardando od ascoltando altri vivere attorno), allora è anche peggio: probabilmente interessa solo a chi ha scritto. Chissà.
 
Ci potrebbero essere assonanze, con la sua storia e la mia, più probabilmente no, nessun contatto. Però. Ci potrebbero essere "significati individuali che abbracciano sensi collettivi". La luce rossa con su scritto "panico" lampeggia. Storie raccontare da uno qualsiasi che non sono solo sue, non per approcci, dinamiche nonché tematiche. Allora che fare? Ascoltarle, cercarle magari, vorrei poter rispondere. Eccoci arrivati. Slacciare le cinture, attendere l’apertura dei portelloni, controllare di non aver dimenticato nulla, l’Italia spa non risponde di eventuali smarrimenti in loco.
 
Ci sono libri che volutamente non finiscono sulle pagine dei giornali, figuriamoci dentro spot televisivi o trasmissioni misto-frutta. Ci sono libri scomodi, pericolosi. Dei quali non ci si occupa a prescindere da stile, autore, casa editrice o effettiva "bontà". E’ il contenuto, il tema, che non deve –non deve– solleticare reazioni.

Nella seconda parte l’intervista telefonica con Roberto Alajmo.

Credit photo: Funky64 che ringrazio.

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