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Parlare di Camorra nei media. Sul delitto di Marianella e la violenza come mezzo

Ennesimo morto ammazzato a Marianella, nei pressi di Scampia. Pasquale Romano, 30 anni, residente a Cardito, è stato crivellato da quattordici colpi di pistola nei pressi della casa della sua ragazza e secondo le prime ricostruzioni si tratterebbe di un errore, un ennesimo fatale scambio di persona. 

Alcuni titoli fotografano la sciagura, registrano coi soliti “si presume che” alcune circostanze, per cadere nel dimenticatoio il giorno dopo, quando i titoli sono cambiati. Non nascerà nessun approfondimento, nessun momento pubblico di riflessione, né sdegno (locale o nazionale), anche se questo ne vale della reputazione - dell’innocenza - di persone; come quando a fine giugno scorso, sono morte ammazzate in poche ore tre persone, ed evidentemente tra una rullata e l’altra di notizie, non si è avuto abbastanza tempo per dire che uno di questi non fosse implicato in vicende criminali, era vittima innocente di camorra.

D'altro canto, per l’audience e l’auditel raccontare la morte di boss o affiliati ha un peso editoriale/mediatico maggiore di quella degli innocenti. Anche sugli schermi della Rai si dà più spazio alla morte del camorrista Marino, boss degli scissionisti, o anche del luogotenente Modestino Pellino (O’ Miccill), che all’innocente Nollino morto poco prima, per il semplice fatto di essersi trovato nel pieno di una sparatoria, nei pressi del suo bar.

Il vero scandalo sarebbe nel chiamarla ancora “informazione pubblica”, quando in realtà si sa bene che l’informazione televisiva e dei mass media utilizza sempre più un linguaggio funzionale ad un certo mercato, soprattutto quando si parla di argomenti come la “camorra”. Un linguaggio sciatto, superficiale che segue la moda, calcando una certa patina eroica: un linguaggio finalizzato al marketing e quindi per definizione manicheo, superficiale, leggibile al telespettatore medio che non conosce queste realtà, servendosi di termini generici, vuoti e divenuti archetipi collettivi “ucciso a Gomorra”; facendo apparire la  repressione alle mafie come una semplice cattura di latitanti, senza minimamente soffermarsi a raccontare le contraddizioni e le specificità del territorio, senza dare la voce davvero a chi vive il territorio (forse perché non vende?).

Quando si offre un microfono alla vittime lo si fa sempre, seguendo un malcostume, creando personaggi televisivi che devono interpretare ruoli (e infatti non a caso offrono soldi e viaggi); si tende insomma a soffermarsi sul sentimentalismo raccapricciante, sulla superficie, parlando in termini generali contro il male (camorra), piuttosto che raccontare equilibri e dinamiche criminali, con nomi cognomi e partendo dalla narrazione di inchieste giudiziarie. Gli operatori dell’informazione, si sono infatti dimenticare di sottolineare (se non con tre righe di ansa) che un paio di giorni fa è stato arrestato uno dei più pericolosi latitanti del clan Moccia, che – si pensa - gestiva oltre Casoria anche la stessa Caivano.

Magari – anche se questo può annoiare il telespettatore medio - qualche cittadino, potrebbe chiedersi come mai, in quello che viene chiamato triangolo dell’usura, non si spaccia droga (se non nel parco Verde di Caivano). Magari si potrebbe anche spiegare meglio cosa significa che Giuseppe Alfano (conosciuto sul territorio come Pepp o’ Lupo o Lup e’ notte) era uno dei “senatori” del clan Moccia. Un clan che secondo le forze dell’ordine ha una struttura verticistica, più simile ad una cupola siciliana che alla camorra napoletana, utilizza figure intermedie chiamate “senatori”, per comunicare tra vertici del clan e affiliati. Il clan gestisce ancora l’eredità con cartello della nuova famiglia (l’alleanza anti cutoliana) per metodi intimidatori. E, se sono divenuti uno dei clan più longevi dell’intera geografia criminale campana, è perché hanno compreso che per ottenere potere bisognava seguire tre imperativi: organizzazione, consenso e abbassamento della visibilità (non esporsi mediaticamente). Insomma esattamente l’opposto di quello che può credere un normale telespettatore.

La violenza è un mezzo, non un fine. Il fine è il controllo e potere, si sono accorti che abbassando la visibilità e creando consenso sul territorio si riesce ad ottenere il potere in modo più oculato (NB. per chi è intenzionato a querelare, si veda a pubblicazione Dia, e operazione Vortice ndr) .
Come ha dichiarato il collaboratore di giustizia D’Angelo, confermato dall’ordinanza di custodia cautelare del 2010, i diversi sottogruppi criminali sono uniti e ben collegati, al punto che quando devono andare a fare estorsione, preferiscono prendere “facce nuove”, affiliati che vengono da altri comuni in modo che la vittima – per un'eventuale denuncia - non riconosca immediatamente l’estorsore (il quale provenendo da altri comuni, non è presente neppure nella tabella di fotografie presentata dalla FFOO, che generalmente registra solo i nomi di pregiudicati presenti sulla zona).

Organizzazione più che forza fisica. Quando devono minacciare o avvicinare la vittima, come dichiarato sempre dallo stesso D’Angelo, non si avvicinano direttamente a lui se non la conoscono, ma utilizzano componenti della famiglia come intermediari, per difendersi da eventuali denunce. Il consenso, invece, l’hanno ottenuto, chiudendo per esempio storicamente il mercato della droga ad Afragola (addirittura , come ampliamente confermato dalle forze dell’ordine, vi sono state gambizzazioni a chi ha trasgredito quest’ordine), in questo modo abbassano la visibilità con le forze dell’ordine, per poter controllare meglio la zona.

Un clan che si è “imborghesito” e che, come confermato dalle indagini conclusi con l’operazione Vortice, ha fatto un salto di qualità perché riesce ad abbassare visibilità, grazie ad una serie di sottogruppi criminali ben controllati, subappaltando quindi le azioni criminali a questi diversi sottogruppi (hanno un’autonomia gestionale, e prendono una percentuale sugli appalti che arriva anche al 50%). Un clan che, come evidenziato dall’ultimo rapporto semestrale Dia, conta su elevata quantità di denaro e in questo modo riesce facilmente a militarizzarsi dopo le retate. I vertici del clan sono interessati alle azioni imprenditoriali di primo livello, investendo e riciclando soprattutto da decenni a Roma e nel basso Lazio (in tv ne parlano solo quando uccidono qualche affiliato). La capacità di riuscire a riciclare, ad ogni modo, è direttamente proporzionale ad un operazione di “marketing” costruita su studi legali e negli uffici rispettabili. Ed è abbastanza grave come l’informazione sia pigra, per così dire, su determinate tematiche, anzi addirittura ci sono articoli che riportano notizie false, facilmente sementabili con documenti ufficiali. Come l’articolo apparso sul Corriere del Mezzogiorno, dove non si contestualizza affatto la vicenda, e sembra quasi dare spazio ad un monologo senza contraddittorio e senza appurare la veridicità delle notizie. 

Questo sui giornali, mentre sul territorio il chiacchiericcio di affiliati riesce a importare l’ideologia del clan (“Non si spaccia perché vogliono bene ai ragazzi”) oppure si fa passare l’idea che magicamente scompaiono camorristi dal territorio e si spostano tutti a Roma (“Quelli pensano solo a Roma”). Ora si potrebbe parlare per pagine (anzi per libri) di queste cose, ma evidentemente non interessa a nessuno, neanche ai telespettatori, più attenti a programmi di intrattenimento televisivo. Eppure basterebbe che tutti parlassero, per capire che Giuseppe, più che un lupo, potrebbe essere paragonato un animale un po’ più mansueto, magari anche un po’ ridicolo, grottesco.

Basterebbe interessarsi, capire, comprendere per far scomparire quella metastasi orrenda che può facilmente essere estirpata senza aver bisogno di eroi o star televisive. Ma questo, forse, non interessa all’informazione pubblica. E intanto noi, nel silenzio mediatico, dovremmo continuare a tacere su figure come quella del signor “Pepp o Lupo”: sia per rispetto, poi perché il clan Moccia non esiste, ma anche (e soprattutto!) perché veniamo dal territorio.

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