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Ortaggi dimenticati: fino a 1.200 specie di piante per nutrirsi. E oggi?

 
In questa stagione, l'orto è quasi vuoto: restano una fila di porri, un po' di cavoli, di finocchi, di cardi, un riquadro di spinaci, qualche ciuffo di insalata (la rossa è da coprire); sono sotto serra, ormai, gli ultimi ravanelli.

Anche in giardino ci sono dei vuoti: qualche albero è vecchio, qualche altro è malato. È tempo di fare programmi, di prevedere le nuove piantagioni e colture. Ma questi giorni d'autunno, in campagna, possono essere anche l'occasione per qualche riflessione su ciò che coltiviamo, sulle varietà di frutta e legumi che vorremmo raccogliere.

Gli storici sostengono che i nostri antenati qui in Europa utilizzassero circa 1200 specie di piante per nutrirsi, Oggi siamo ridotti a qualche decina: anche sui più ricchi cataloghi si trovano tutt'al più una sessantina di specie e varietà di ortaggi e una ventina, al massimo, di varietà di frutta.

Il catalogo francese Vilmorin Andrieaux pubblicato nel 1883 offriva 200 specie di frutti e legumi, all'epoca consumati correntemente.

Oggi nei nostri supermercati, frutto della coltura semi-industriale, ne restano una trentina mentre all'indomani della prima guerra mondiale il prof. Oreste Mattirolo - presidente della Regia Accademia di Agricoltura e direttore dell'Istituto Botanico dell'Università di Torino - recensiva circa 400 piante spontanee (delle tremila che crescono in Piemonte) che potrebbero in qualche modo essere mangiate o utilizzate per l'alimentazione umana: sono praticamente tutte dimenticate, tranne forse - alcune dalle vecchie contadine che sanno ancora trovare, andando nei boschi, erbe, bacche e frutti che nessun cittadino ha mai sentito nominare. Erano altri tempi, d'accordo, la fame, la povertà, la mancanza di comunicazioni fanno diventar buoni vegetali che forse non sono proprio cibo da ghiottoni.

Molti prodotti agricoli oggi dimenticati hanno dunque soltanto un valore storico, moltissimi altri potrebbero invece continuare a rappresentare un reale interesse per la nutrizione: li abbiamo dimenticati perché siamo diventati più pigri, perché i sistemi di coltivazione e selezione hanno favorito certe specie e certe varietà a scapito di altre.

L'agricoltura sembra tendere sempre più verso una normalizzazione, una standardizzazione dei prodotti, riducendo in modo considerevole la loro diversità, diminuendo per conseguenza la scelta a disposizione del consumatore. In realtà c'è di più: non è affatto detto che i prodotti agricoli oggi sul mercato siano "migliori" di ieri; si è puntato più sulla quantità e l'apparente bellezza, che sulla qualità; i sistemi moderni e chimici di coltivazione favoriscono pochi prodotti e ne fanno mettere da parte altri.

Non è detto, pertanto, che nel nostro piccolo fazzoletto di terra si debba seguire la moda: al contrario, potrebbe essere interessante, qua e là, tentare la facile coltivazione di ortaggi dimenticati, oppure far crescere alberi da frutta che ci permettano il raccolto di varietà dimenticate e buonissime.

Riappaiono timidamente i nespoli nostrani; si sta rivalutando la mela cotogna; si sente nuovamente parlare dei giuggioli; tornano anche i cachi, piuttosto trascurati negli ultimi anni, nell'immenso regno delle uve da tavola qualche vivaista si è sentito chiedere barbatelle di pizzutello, un'uva che era trionfante sulle tavole contadine fino agli Anni Trenta, oggi quasi irreperibile. E la moda dei vini rari sta facendo riapparire nelle vigne di collina e di montagna qualche filare di Avarengo,di Carcaron, di Occhio di Pernice, di Doux d'Henry, vitigni che sembravano destinati a scomparire.

Da noi nessuno si sogna di mangiare la pastinaca, dalla grossa radice gustosa, più nutriente della carota, che è invece assai apprezzata in Gran Bretagna. Meno che mai vediamo sui banconi dei supermercati l'igname (Dioscorea batatas), dai rizomi che pesano anche 12-13 chili (in varie parti del mondo si coltiva come la patata).

Il trionfo degli spinaci ha messo in ombra altri ottimi legumi a foglia: per esempio l'atreplice (detta anche bietolone); il chenopio (Chenopodium album), che pur cresce come erba cattiva un po' in tutti i nostri giardini, senza che si sappia che è saporito, ricco di vitamine e che può essere consumato crudo o cotto. E la tetragona, chi la conosce più? A differenza dello spinacio, a cui è simile, la tetragona si raccoglie anche in estate e cresce in terreni secchi. Anche il Buon Enrico è uno straordinario ortaggio da foglia relegato ormai a qualche rarissimo piatto locale.

Con le foglie di consolida (Symphytum officinale) negli Usa preparano addirittura bistecche vegetali ricche in vitamina B12: noi la distruggiamo come erba cattiva. La Coda di volpe (Amarantus caudatus) è coltivata dalle nostre parti come ornamento, ma gli Aztechi ne raccoglievano i granelli rosa che utilizzavano per fare farina.

E chi coltiva ancora il luppolo per raccoglierne a primavera i deliziosi germogli? Attingendo all'esperienza del passato gli stimoli per rinnovare orto e frutteto non mancano. Avendo il posto, per il nostro gentiluomo di campagna non sarebbe una cattiva idea, invece di doverli comprare in sacchetti confezionati dalle industrie, coltivare con facilità anche lenticchie e ceci, legumi antichi quasi come il mondo, che crescono benissimo nella Pianura Padana.

Oppure trovare il seme delle cosiddette noccioline americane, metterlo in terra e aspettare il momento del raccolto: conosciamo queste noccioline quasi soltanto quando sono secche e tostate; in altre parti del mondo si utilizzano anche fresche e arricchiscono non pochi piatti; schiacciandole, se ne fa addirittura un ghiotto burro, diffuso in America come da noi la Nutella.

Ma c'è da dire che purtroppo alcune leggi a livello europeo hanno permesso di brevettare frutti e cereali, facendo un grosso regalo alle multinazionali della chimica, imponendo i loro prodotti a noi consumatori, ignari di cosa mangiamo.

Per farvi capire cosa succede ai nostri frutti, ecco cosa scrive Slow Food sulle mele:

Sono brevettate e di esclusiva proprietà di aziende che vendono un pacchetto completo agli agricoltori: piante, fertilizzanti, fitofarmaci. Tutto è controllato e il margine di scelta di chi coltiva è nullo: anche il prodotto finale viene ritirato da chi possiede il brevetto e immesso sul mercato quando meglio crede. Un agricoltore non può vendere le sue mele dove vuole e al prezzo che ritiene giusto.

 

Foto: Wikimedia

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