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Obama: confusione e crisi?

La situazione è in piena evoluzione ma cominciano ad essere evidenti dei segnali involutivi che rendono difficile e precaria la presidenza USA. L’articolo analizza proprio queste contraddizioni sforzandosi di intepretare i segnali che vengono dalla politica del presidente americano.

Obama: confusione e crisi?

Grande confusione sotto al cielo dell’America, e la situazione, al contrario di quanto soleva dire il grande timoniere cinese Mao, non è eccellente.
 
Obama è in evidente difficoltà.
 
Sembra perdere il controllo politico dello scacchiere americano e comincia, per la prima volta, a scomporre l’armonica geometria della sua azione politica. Da quello che appare, soprattutto con le due ultime mosse come il suo discorso sullo stato dell’Unione e la scelta di riprendere le forniture militari a Taiwan, sembra proprio che si stia arroccando nel classico cliché del presidente democratico, tutto lavoro interno e muscoli esterni.
 
Se davvero fosse così, e noi per primi crediamo che sia ancora presto per fasciarsi la testa - ma comunque il mestiere di analista è proprio quello di cercare di capire le tendenze non ratificare i processi - il quadro globale si farebbe davvero fosco. 
 
Cominciamo dal suo discorso di mercoledi sera a Washington.
 
La parte centrale era tutta dedicate all’economia, e dati i tempi non può essere certo una sorpresa. Una certa impressione, soprattutto nei suoi supporter più innovativi, è stata invece destata dai contenuti.
 
Lavoro, lavoro, lavoro.
Obama ha battuto la grancassa lavorista, sollecitando il sistema americano a rimboccarsi le maniche e portare a casa più commesse possibili. Una scelta che ci riporta indietro alla Grande società di Lyndon Johnson del 1965. 
 
Qualche giorno prima sul New York Times, un acuto osservatore di modernità, notissimo anche in Italia per il suo libro Il Mondo è Piatto, Thomas L. Friedman, consigliava al presidente americano di occuparsi di Jobs, ma nel senso di Steve
Nel gioco di parole c’è tutto il nodo della prospettiva del progetto obamiano: sapere ed innovazione come matrice dello sviluppo
 
Questa era la ricetta che ha portato Obama a diventare il primo presidente del social network americano, il primo politico che ha voluto identificare la rete in un vero soggetto sociale centrale in ogni progetto e azione di governo. Oggi, sotto i colpi di una reazione populista, Obama sembra rintanarsi nella vecchia politica industrialista.
 
Una scelta che rischia di lasciarlo solo: senza i native digitali che lo hanno votato e fatto votare, e senza i vecchi produttori americani che corporativamente sono sempre più rinserraggliati sotto le bandiere protezioniste. Ed è esattamente quello che è accaduto a Boston, dove i democratici hanno perso le elezioni proprio perchè sono cadute le motivazioni che avevano portato sotto le bandiere di Obama milioni di nuovi elettori che avevano ampiamente compensato il travaso del voto operaio e industrialista.
 
La stessa scelta delle forniture militari a Taiwan, sembra confermare questa nuova deriva: cogliere l’opportunità di rimettere l’apparato industrial militare americano al centro della scena, sia in termini geopolitici che in quelli economici. Produrre di più, anche armi, era la ricetta di Reagan e di Bush.
 
Ora rischia di diventare il rifugio di Obama. 
 
In questa chiave anche il conflitto aperto con i cinesi per Google, rischia di assumere le sembianze di una revanche da guerra fredda fuori tempo, invece di una sfida di libertà. Tanto più che oggi il sistema della rete si trova ad un bivio delicato, dove sarebbe essenziale avere una bussola politica e strategica pubblica. Le ultime mosse di Apple - l’iPad - e di Google - Nexus One - rimettono al centro dello sviluppo i sistemi proprietari. Rilanciando la competizione sul rapporto diretto con l’utente finale. 
 
Una scelta involutiva, che ingabbia le suggestioni del cloud computing nelle maglie degli interessi dei singoli brand. E non è un caso se, da quanto sembra di capire dai primi segnali del mercato, qualcosa si sta inceppando attorno alla mela magica di Steve Jobs e al parco delle meraviglie di Mountain View.
 
L’iPad al momento suscita più delusione che entusiasmo: si tratta di un indefinibile prodotto intermedio, con limitazioni di potenza e di funzioni, tutto proterso ad accellerare la corsa agli acquisti nei magazzini virtuali dell’Apple.
 
Non più felice è apparsa la nuova uscita di Google che sta virando a tutta velocità su una scelta di commercializzazione di oggetti e non più di funzioni e relazioni. Siamo ad un’impasse che potrebbe imprevedibilmente aprire la porta ad un’approccio europeo, improntato ad una politica di più libertà e più innovazione.
 
La vecchia Europa potrebbe essere la comunità che richiama i grandi marchi americani ad andare avanti e non indietro. Per questo bisognerebbe abbandonare la strada delle rivendicazioni fiscali in tema di copyright e di proprietà dei diritti e lavorare sulla potenza degli accessi e delle domande di servizi interoperabili.
 
Sarebbe un’occasione per il sistema culturale e formativo europeo, e per quello economico. Potrebbe persino esserlo per quello politico amministrativo. Ma qui la notte appare ancora molto lunga. L’importante è almeno costruirci strumenti per decrittare i fenomeni che si annunciano.
 
Il dibattito che si è tenuto a Rai Corporation a New York, il 28 gennaio scorso, sul nostro libro Obama.net: New media, new Politics? ha rimbalzato questa necessità. 
Come spiegava Giampaolo Pioli, presidente dei corrispondenti esteri a New York, Obama sta recuperando il vecchio bagaglio politico democratico, anche se vuole rimettere in moto il suo popolo della rete, riattivando siti e communities.
 
Bisogna capire se l’ibridazione riesce. Mentre Corrado Clini, direttore generale del Ministero dell’Ambiente, che aveva seguito Obama nel corso dell’ultimo vertice di Copenaghen, si dice scettico sulle possibilità del presidente di spingere gli americani sulla strada di una forte autolimitazione dei consumi e delle emissioni se non apre una vera battaglia culturale sull’idea di libertà individuale. 
 
Battaglia che Giorgio Einaudi, direttore dell’ISSNAF, la fondazione dei ricercatori scientifici italiani in USA, vede soprattutto esplicarsi nel rapporto fra sapere e politica. 
 
Su questi temi sarebbe bene continuare a ragionare ed ad osservare. 

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