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Noi, avvocati stagisti pronti a lavorare gratis

Della nostra generazione dicono di tutto: che siamo inadeguati, insoddisfatti, scansafatiche. Che dovremmo andare a zappare o a fare i mestieri, che gli studi non ci preparano al lavoro, che dovremmo accontentarci. Oppure, che non sappiamo protestare abbastanza. E mentre dicono questo continuano a stanziare soldi per i prepensionamenti, mentre a noi lasciano solo le briciole. #tivendibenetu è una campagna sulle reali condizioni di lavoro, e di vita, dei giovani in Italia. Questa è la storia di Roberta. 

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È un pomeriggio di fine aprile quando mi arriva una telefonata: “Pronto sono la collaboratrice dell’avvocato Taldeitali”. La parte più catastrofica di me pensa subito a una querela, la parte giuridica ricorda che le notifiche non avvengono al cellulare, la parte sociale continua a parlare al telefono con faticosa disinvoltura.

Alla fine, quello che mi si offre, è il colloquio per uno stage. Una settimana dopo mi ritrovo davanti all’avvocato, una giovane donna che prende appunti sugli esami che ho dato. “Lei sa scrivere?” mi chiede poi. “Dicono di sì” rispondo. E quindi mi spiega: nel suo studio lavorano la collaboratrice che mi ha telefonato, che sta svolgendo il praticantato per l’esame da avvocato, e un’altra ragazza, studentessa in stage, che copre tre pomeriggi.

Io dovrei lavorare tre mattine, redigendo documenti semplici e depositando atti in tribunale. “Lo stage durerebbe due mesi. Ma se Le piace possiamo prorogarlo di altri due mesi. E poi altri due mesi. Però facciamo una settimana di prova, così anche lei vede se le piace il lavoro, perché se poi non le piace va a finire che me lo fa male”.

E così mi presento. Il giro dell’ufficio, qui ci sono le fatture, qui l’archivio, le cartellette per il tribunale sono di questo colore. Poi mi danno da scrivere un decreto ingiuntivo. E, a mezz’ora dalla chiusura, mi viene data una cartelletta piena di documenti: devo scrivere una lettera ad un’assicurazione per ottenere un risarcimento.“Cerca di finire entro l’ultimo giorno della settimana, perché il lavoro che non fai tu poi lo devo fare io”.

E poi, l’appuntamento in tribunale per la seconda mattina. Scadenze da rispettare, copie autentiche, copie semplici, marche da bollo, code agli sportelli. Il compenso? “Lo stage è segnalato all’università, quindi credo tu abbia dei crediti”. Ah, sì. I 3 crediti che ho già ottenuto al primo anno, con un seminario di un’ora a settimana. Insomma, per quei tre crediti che già ho dovrei recarmi a dieci chilometri da casa, cambiando i programmi della famiglia (perché la patente ce l’ho, ma l’auto no).

E dal momento che dovrò andare spesso in tribunale mi toccherà spendere più di 70 euro al mese in abbonamenti per Milano. E, quindi, alla fine, le dico che la settimana di prova resta una prova: perché, sa com’è, sono scomoda. Non aggiungo altro, perché non credo valga la pena: giovani di belle speranze freschi di studi giuridici si affollano a cercare avvocati che li impieghino, che permettano loro di solcare i corridoi del tribunale. Anche gratis.

Anzi, soprattutto gratis. Io certo non chiedo di essere pagata per un lavoro che ancora non so fare. Ma se scrivo documenti validi, se perdo mattinate agli sportelli del tribunale, se insomma faccio un lavoro che “se non fai tu poi lo devo fare io”, gradirei che almeno le spese vive – quelle che un avvocato chiede al cliente fuori dalla parcella – mi vengano rimborsate.

Perché io non ho nulla contro il volontariato. Ma decido io se essere volontaria, come e per che cosa. E, soprattutto, continuo a chiamarlo volontariato, non lavoro. E nemmeno stage.

di Roberta Covelli

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