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Il mio amico Mario ha un contratto di un anno e la gamba rotta

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Voglio raccontarvi una storia in cui, sono certo, molti di voi si riconosceranno. Il motivo per cui devo raccontarla io, anziché farla scrivere a chi l’ha vissuta in prima persona – come si è fatto per tutta la campagna #tivendibenetu sulle condizioni di lavoro e di vita dei giovani precari – beh, il motivo lo capirete fra poche righe.

Pochi giorni fa ho rivisto un amico che non vedevo da un po’. Entrambi lavoriamo molto e si fa fatica a incontrarsi, ma delle volte ci si riesce. Dopo i mesi e gli anni a cercare borse di studio, tirocini, erasmus placement e cose di questo tipo, finalmente Mario (nome di fantasia) è riuscito a trovare un lavoro per lo meno in linea con ciò per cui si è laureato e per cui ha viaggiato mezzo mondo collezionando stage di alto livello. Mario, come me, si avvicina ai 30 anni.

Dalle poche volte che ci siamo visti ho intuito che il lavoro che fa adesso è piuttosto duro, soprattutto per quanto riguarda gli orari di lavoro, che si dilatano ben oltre il timbro del cartellino. Ma questa è una cosa molto comune fra i miei coetanei, in ogni tipo di lavoro, per cui non mi sono scandalizzato. Certo, vederlo stanco morto ogni sera, le poche, che siamo riusciti a vederci, mi ha fatto pensare. D’altra parte, quasi sempre ero più stanco di lui.

Dicevo, pochi giorni fa ci siamo rivisti. “Passo a prenderti?”, gli dico. “Sarà meglio di sì perché mi sono rotto una gamba”, mi risponde. Nulla di grave, scoprirò poi: Mario ha la caviglia del piede sinistro rotta, e ora è fasciata stretta e steccata. Il medico gli ha dato un mese di prognosi e una scarpa speciale che dà molta difficoltà a camminare ma che permette a Mario di non dover usare le stampelle.

Mentre andiamo verso il solito bar, camminando piano, gli chiedo se gli faccia molto male. Risponde di no, non troppo. Poi inizia a parlare e mi spiega di essere preoccupato. “Io avrei voluto davvero non farli ‘sti 30 giorni di malattia, ho provato a rifiutarli ma per legge sono obbligato a non andare al lavoro”, spiega. Non riesco a capire dove voglia andare a parare, ma lo scoprirò presto.

Già, perché Mario ha un contratto determinato di un anno, un gradino sopra il contratto a progetto ma non certo il paradiso. Il suo contratto, però, rientra in una categoria particolare che gli dà alcune tutele in più. Fra queste, appunto, tutti quei giorni di malattia. Che forse, almeno paragonati all’entità del danno sono pure esagerati (ma io non sono certo un medico, e neanche Mario lo è).

Il fatto, spiega Mario, mentre continua a parlare, è che essendo il suo primo anno di lavoro in quell’azienda, e conoscendo le dinamiche di quel posto, teme che questo mese di fermo obbligatorio possa costargli il posto, al rinnovo del contratto fra pochi mesi. “C’è una mole di lavoro impressionante e io li lascio così… spero davvero che non influisca ma sono un po’ preoccupato“, mi dice. E, dato che di lavoro mi occupo, per quanto lo capisco bene, non riesco a non pensare che preoccuparsi del rinnovo del contratto anziché della propria caviglia rotta… beh, è proprio il segno dei nostri tempi. Qualcosa che i nostri genitori, ai loro tempi, forse non hanno mai vissuto.

E ditemi voi se uno deve sentirsi in colpa, o avere paura, o venire non rinnovato per colpa di un diritto: i giorni di malattia. “Certo”, dice Mario “Potrebbero essere tutte paranoie mie, eh”, aggiunge dopo un po’. Storia chiusa. Ma non è così. O meglio, non è quello il punto. Il punto è che Mario si sia trovato nella condizione di porsi un problema di questo genere. Il punto è: a quanti di noi con un contratto determinato, a progetto o anche a partita Iva, oggi, capita la stessa cosa, avere il terrore di ammalarsi?

Non so, a voi sembra normale?

di Michele Azzu

Questo articolo è stato pubblicato qui

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