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Napolitano: cosa succederà adesso?

Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, si è dimesso alle 10,35 di mercoledì 14 gennaio, dopo nove anni da primo inquilino del Quirinale, ma qualcuno direbbe: dopo avere regnato per circa un decennio l’Italia repubblicana. La notizia delle dimissioni, preannunciata da tempo, arriva nel giorno in cui la Banca d’Italia relaziona sull’andamento del debito pubblico. Questo è cresciuto di oltre 90 miliardi nei primi undici mesi del 2014. A conti fatti, il debito pubblico ha ripreso a crescere da febbraio 2014, senza mai dare segni di rallentamento, coincidendo con la gestione del Governo nazionale saldamente in mano a Matteo Renzi che è stato nominato premier (senza mai aver conosciuto legittimazione dell’elettorato) il 22 febbraio dell’anno scorso.

Un record, non c’è dubbio, che fa il paio con quello stabilito dal livello di inflazione, che è il più basso dal 1959 a oggi. Tra questi due estremi; debito pubblico e inflazione, nella carriera di Matteo Renzi da premier, si registrano fasi virulente di malanni vecchi e insorgere di nuove patologie. Le terapie individuate dal Premier, consistono in una fase di riforme, soprattutto costituzionali, che stanno alla ripresa italiana, come la crema antirughe a un elefante. Anziché azzerare il gap tra crisi economica e sviluppo, le riforme renziane hanno finito e finiranno per restringere gli spazi della democrazia allontanando ogni residua speranza di ripresa. Eppoi, quelle riforme in essere e in incubazione (abolizione di Senato e province, già attuata quest’ultima; soppressione dell’art.18 e del titolo V della Costituzione), arrivano e sono messe in atto da un Parlamento che è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale a dicembre del 2013.

Lungo il lento scorre di un decennio; il Presidente della Repubblica è stato testimone attivo di questa inarrestabile fase di declino che investe l’Italia in maniera sempre più stringente, ergendosi a supremo arbitro; travalicando le proprie funzioni e invadendo il campo della politica (fu Giorgio Napolitano, a quanto pare, a non volere Nicola Gratteri nella rosa di ministri del governo Renzi). Ma alla fine “re Giorgio” se n’è andato, ha dato le dimissioni. Lui invece, Matteo Renzi, si è dato un termine di scadenza fissato per il 2018. Ma c’è da chiedersi cosa ne sarà dell’Italia e degli italiani se i suoi primi undici mesi hanno coinciso con i risultati più devastanti degli ultimi venti anni; se in soli undici mesi, tanti quanti sono quelli della sua presidenza del Consiglio, il debito pubblico è cresciuto di altri 90 miliardi. Per molto meno, cioè per una bolla speculativa messa in atto dagli occulti mondi della finanza, meglio conosciuta come “spread”, nel 2011 sono state chieste, e ottenute, le dimissioni di Berlusconi da capo del Governo. Seguì un anno terribile, prima di arrivare alle elezioni del febbraio 2013, con il professor Mario Monti che, fra altri provvedimenti letali e interventi in soccorso delle banche, ottenne addirittura una riforma che impone per lo Stato italiano il pareggio di bilancio nella Costituzione. Noi eravamo “italiani brava gente”, divenimmo un popolo senza identità e adesso pretendiamo di essere “Charlie”. Ma siamo solo un popolo in via di sostituzione, perché quelle regole imposte, per esempio dal Job-act e dalla soppressione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, rendono ancora più precario il lavoro per i giovani ed estendono il rischio di disoccupazione a quanti un impiego ce l’hanno. Con queste regole d’ingaggio, prospettate dal piano di riforme poste in essere da Matteo Renzi, l’Italia non sarà più un paese per italiani, né per i vecchi e tantomeno per i giovani. Le condizioni di vita offerte dall’attuale sistema Paese, dai vincoli imposti dall’Unione Europea, dai mercati finanziari di tutto il mondo, propongono delle scelte che noi italiani non siamo disposti ad accettare, ma che subiamo, ben sapendo che, nel volgere di un ventennio, non saremo più la maggioranza della popolazione dell’Italia. La totale islamizzazione dell’occidente non è che un effetto collaterale di questo riversamento di popoli, assai proficuo per il modello capitalistico posto in essere in Europa e che porterà, gradualmente, alla completa sostituzione della forza lavoro autoctona, con i risparmi conseguenti da una drastica riduzione delle garanzie e dei diritti che i lavoratori hanno conquistato con un secolo di lotte. Noi italiani non siamo “Charlie”, come Matteo Renzi non è un uomo di sinistra; come non lo è il suo partito allorché continua a farlo governare e ad avallare siffatte, aberranti realtà. Aiutatelo dunque e dimettersi, a seguire, al più presto, l’esempio del Presidente della Repubblica , prima che sia davvero troppo tardi e che l’Italia, al pari della Sassonia, non divenga definitivamente un Lander della Germania e che possa prendere il nome di…”Minchionia”.

 

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