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Monocromia del mondo immaginale dello zen

La produzione artistica dello zen si connota –secondo una felice espressione di Robert Blyth- come ascesi estetica, come una pratica finalizzata all’intuizione della natura del reale attraverso la meditazione sulle forme alla ricerca dell’essenziale. A chiarire questo processo, possono servire le riflessioni emerse in un colloquio, avvenuto il 18 maggio 1958, tra Martin Heidegger ed Hisamatsu Shin’ichi sul tema Arte e pensiero.

All’incontro partecipavano, tra gli altri, Max Müller, Egon Vietta ed il pittore Alcopley. Heidegger chiede se l’arte giapponese, precedente l’influenza occidentale, si configurasse anch’essa come immagine, come rappresentazione, e se ciò non fosse in contrasto con la cultura del senza forma. Hisamatsu risponde che, mentre in Occidente è per definizione una rappresentazione formale, Eidos, l’arte zen è invece movimento: un duplice movimento, dalla Realtà all’origine della Realtà e, a ritroso, dall’Origine alla Realtà. L’essenza delle rappresentazioni artistiche dello zen consiste in questo ritorno, in cui si porta nella quotidianità l’esperienza dell’Origine che costituisce il Sé, ovvero il Vuoto. In altre parole l’arte nello zen punta ad esprimere l’esperienza del Vuoto originario: l’immagine dello zen si muove liberamente nello spazio del Nulla. Si differenzia tuttavia dall’arte informale occidentale perché questa annichilisce la forma, mentre l’arte dello zen va alla ricerca della non Forma originaria. Tende ad esprimere l’unità essenziale di tutti i fenomeni, radicata nel Vuoto assoluto. Per questo motivo, tende a sublimare l’aspetto cromatico perché ritenuto inessenziale.

Ricerche antropologiche hanno stabilito che il fascino del colore è presente in tutte le culture. Alcuni gruppi culturali aborrono determinati colori o combinazioni di colori, ma nessun gruppo nega il colore in termini assoluti. La cultura giapponese in particolare sembra fortemente connotata dall’elemento estetico e dal gusto per il colore. La stessa natura del Giappone, le sue fioriture, i contrasti cromatici del suo paesaggio hanno fortemente influenzato il senso del colore della civiltà giapponese e tale sensibilità è testimoniata dalla letteratura del periodo Heian (794-1185). La raffinata eleganza della corte imperiale di Kyōto era espressa in massimo grado dal gusto per la scelta dei colori e delle combinazioni dei toni negli abiti delle dame di palazzo, come ci fanno sapere il Genji monogatari di Murasaki Shikibu e le Note del guanciale di Sei Shonagon. Anzi, l’abito diventa la persona, era un simbolo diretto della personalità e le sue tonalità cromatiche diventavano linguaggio. Le dame di palazzo del periodo Heian portavano il cosiddetto juni hitoé: una stratificazione di dodici abiti ognuno leggermente più corto dell’altro, per cui l’abito esterno lasciava intravedere undici orli perfettamente dosati dal punto di vista delle tonalità cromatiche. In una celebre pagina del Diario, Murasaki narra dello sconcerto e del panico che serpeggia tra le dame di palazzo nel notare che una di loro si era presentata in udienza con il colore di uno dei lembi non perfettamente intonato.

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L’amore così intenso, delicato e sofferto della civiltà giapponese per la bellezza dei colori doveva costituire paradossalmente il punto di partenza per la sublimazione degli stessi. D’altro lato, nell’atteggiamento estetico della stessa aristocrazia giapponese del periodo Heian è ravvisabile una tendenza alla sobrietà, alla tranquilla delicatezza degli accostamenti, al privilegiare le tonalità tenui, allo smorzare i colori. Il nero tuttavia era sentito come un colore triste, depressivo, povero. Evocava la morte o la presa dei voti. Malgrado tutto ciò, vi era chi -dotato di un più rigoroso senso estetico- lo considerava, anche in quell’epoca, come la somma di tutti i colori, l’espressione della purificazione dalle emozioni, l’espressione di una malinconica pace al di là dalla frivolezza dei colori.

Questa situazione, che vede la predilezione per il nero emergere da una forte sensibilità cromatica, sembra essere contraddetta dal successivo periodo Momoyama (1573-1615), epoca caratterizzata da un intenso vitalismo e dall’affermarsi di un regime di dittatura militare che portò all’edificazione dei palazzi imperiali di Kyōto, decorati a colori vivaci su sfondo oro. Massimo rappresentante di questa esplosione di colori squillanti in pittura fu Eitoku Kano (1543-1590), che dipinse i paraventi della sala delle udienze del castello imperiale e fondò l’omonima scuola di pittura. È tuttavia vero che l’arte del periodo Momoyama sviluppa parallelamente la pittura monocromatica, espressione dello zen. Artisti, come ad esempio Tohaku Hasegawa (1539-1610), si convertono dallo stile kano al bianco e nero.

Il periodo Momoyama è anche l’epoca in cui, in contrapposizione al gusto imposto dalla leadership militare, si afferma il genio del maestro del tè Rikyū (1521-1591) e la nozione estetica di wabi. Per motivi di spazio mi è impossibile approfondirne le caratteristiche. Mi limito a segnalare i suoi tre elementi costitutivi: solitudine, povertà e semplicità. Solitudine non significa asocialità, comportamento che sarebbe contraddittorio trattandosi della cerimonia del tè. Significa piuttosto allontanarsi dal flusso delle passioni e dal coinvolgimento della vita quotidiana. Povertà significa liberarsi da tutto ciò che è inessenziale e che, come tale, costituisce un peso e trasferire tale atteggiamento dalle condizioni materiali ad uno stato di coscienza. Infine semplicità significa spontaneità naturale, mettere da parte ogni artifizio, tendere ad una purezza di comportamento e sentire.

L’estetica wabi porterà nella cerimonia del tè, nelle arti figurative, nei drammi Noh come negli Haiku a sfumare il colore, estinguendolo in una monocromia metafisica, alla ricerca di quel colore originale che è nessun colore. Izutsu Toshihiko, in un magistrale saggio sul tema (cf. Die Ausschliessung der Farbe in fernöstlichen Kunst und Philosophie, Eranos Jahrbuch 41, Leiden, J. Brill, 1972), cita come paradigma di questo comportamento estetico un waka di Fujiwara Teika, che venne assunto come motto dal gruppo che si raccoglieva attorno a Rikyū:

Attorno non vi è alcun fiore sbocciato da vedere. Io non vedo alcuna foglia d’acero che cade. Vedo solo una solitaria capanna di pescatori in riva al mare, nel crepuscolo di una sera d’autunno”.

La poesia inizia con l’immaginazione che prospetta colori che non vi sono più e che lentamente si adatta ad una serena e tranquilla semplicità. Ancora da Izutsu desidero riportare il commento di Nambō Sokei, uno dei maestri di Rikyū, al waka, perché mi sembra illuminante:

Jyō-ō notava in continuazione che lo spirito wabi dell’arte del tè era descritto perfettamente da Teika in questa poesia. Il fulgore dei fiori colorati e delle foglie d’acero può essere assimilato alla scintillante e formale pratica del tè. Ma se noi osserviamo in silenzio e con attenzione la bellezza dei fiori sbocciati e delle foglie colorate, notiamo che essi alla fine possono essere ridotti alla dimensione spirituale del Vuoto assoluto, che viene accennato attraverso l’immagine della capanna. Coloro che precedentemente non hanno apprezzato la piena bellezza dei fiori sbocciati e delle foglie colorate non saranno mai in grado di vivere felici in un luogo solitario, come una capanna di pescatori. Solo dopo che, anno dopo anno, si sono visti fiori e fogli colorate, si è in grado finalmente di capire che la vita in una capanna di pescatori è lo sbocco sublime nella solitudine spirituale”.

Similmente nei drammi Noh, il genio di Zeami metteva in moto un simile processo di estinzione del colore. La superficiale policromia degli splendidi costumi di broccato ed oro veniva ricondotta ad una composta profondità spirituale, attraverso la recitazione austera, distaccata, financo monotona degli artisti, che riuscivano a ridurre ad un nucleo essenziale il fantasmagorico mondo delle forme e finivano per esprimere pace e raccoglimento a partire dal colore e dal moto.

A questo punto bisogna chiedersi quali siano i modi in cui viene espressa la sensibilità estetica dell’acromatismo che, ripetiamolo, non è semplice negazione del colore, ma sviluppo di una ben coltivata predisposizione per l’aspetto cromatico. Una prima tendenza per esprimere il Vuoto originario nelle forme da rappresentare consiste nel limitare l’espressione il più possibile, cercando di concentrare in pochi segni intensi di pennello e in poche ombre l’essenziale dell’immagine da rappresentare. Tale stile giunse ad elaborare tecniche che portavano ad economizzare l’inchiostro, ottenendo segni che al loro interno contenevano spazi bianchi e rappresentavano figure sempre più rarefatte. Altra tendenza, pur mantenendo l’essenzialità espressiva ed evitando nella maniera più rigorosa ogni ridondanza, si proponeva di rappresentare l’essenza della Forma. Si tratta per lo più di paesaggi, o meglio di frammenti di paesaggi naturali, decodificati dall’esperienza spirituale dell’autore, i quali emergono dalla intuizione della coincidenza di Forma e senza Forma. Il rifarsi alla natura riveste in questo caso una importanza capitale. Ogni frammento di ciò che ci sta intorno, ogni sasso, ogni filo d’erba contiene in sé, di fronte al nostro occhio interiore, l’unità e la pace cosmica di tutte le cose esistenti al mondo.

Il problema diventa allora di penetrare la natura del filo d’erba, di sublimarne l’essenza. L’artista si concentra dunque sullo spirito di ciò che intende rappresentare, sulla causa profonda dell’essere, dell’apparire fenomenale del filo d’erba. Cerca di identificarsi con ciò, di divenire anch’egli filo d’erba. Si poteva in tal modo intuire il nucleo originario da cui si dipartono tutti i fenomeni: Basho consigliava di “apprendere dal pino lo spirito del pino e dal bambù lo spirito del bambù”. Alla fine, le espressioni artistiche dello zen diventano pratica meditativa. 

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