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L’immagine della dark lady ed i suoi miti di riferimento

Il termine dark lady è stato, come è noto, coniato da William Shakespeare ed è il tema conduttore dei suoi ultimi sonetti, dal 127 al 154. Il poeta in queste sue ultime composizioni intende esplorare il lato oscuro del femminile. 

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La critica ha lungamente congetturato sul motivo di questa scelta. Si è ipotizzato fosse una reazione ad una sfortunata storia d’amore con tale Mary Fitton, dama di corte. Oppure che fosse ispirata da una relazione omosessuale con il duca di Southampton. Molto più probabilmente si tratta di una forma di antipetrarchismo, in reazione al modello solare e stereotipato con cui, da Petrarca in poi, veniva rappresentata la bellezza femminile: capelli biondi e crespi, pelle lattea, occhi azzurri. Stereotipo questo che imprigiona la creatività e la rappresentazione realistica in una modalità che presto diviene ritualistica.

Con questi suoi sonetti, Shakespeare sdogana l’immagine tenebrosa del femminile. Ricordiamo, come esempio, il verso iniziale del sonetto 127:

Gli occhi della mia donna sono neri come corvi”.

Continuano questi sonetti insistendo sul nero e sull’oscuro: occhi, capelli, vestiti; con accenni che passano dalla descrizione fisica ad allusioni ad aspetti caratteriali e che in qualche modo ricordano le Rime petrose dantesche.

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In tempi recenti, questo stereotipo viene ripreso e banalizzato dal genere noir definito hard boiled. Si tratta di un genere poliziesco in cui situazioni di crimine, sesso e violenza vengono rappresentate in termini realistici. Gli autori paradigmatici del genere sono Dashiell Hammett verso la fine degli anni venti e Raymond Chandler nei tardi anni trenta. I loro protagonisti, Sam Spade e Philip Marlowe, sono detective rudi e solitari, ma interiormente fragili e disponibili a farsi coinvolgere in situazioni pericolose da personaggi femminili oscuri. Mentre sono determinati nelle scazzottate o negli scontri a fuoco, dimostrano debolezza nei confronti della dark lady di turno e si lasciano affascinare. Il loro vivere solitari, con alle spalle storie d’amore fallite che provocano tristezza e disillusione, ne fanno vittime predestinate. La dark lady descritta in questo genere non è malvagia, tuttavia è manipolatrice, sensuale, seduttrice e pericolosa. Anche lei è un personaggio predestinato dalla sua natura: un femminile antagonista.

Questa rappresentazione cinematografica si rifà ad un tema centrale della letteratura decadente: un antagonismo al femminile che si contrappone ad una mascolinità che si sente inetta e inadeguata a vivere la propria epoca. Ma come il sentirsi inetto è una crisi –nel senso etimologico di critica e autocritica- dell’universo maschile, anche la figura della femme fatale in veste di antagonista è una proiezione di questo universo. La produzione letteraria decadente abbonda di rappresentazioni del femminile antagonista. Ricordiamo l’Elena Muti di D’Annunzio, la Fosca di Tarchetti, la Salomé di Wilde, la Lulù di Wedekind, da cui viene tratto il celebre film di Pabst che ha come protagonista Louise Brooks, la quale diviene una icona di tale rappresentazione.

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In periodi di crisi, e il decadentismo apre un’epoca di instabilità che giunge fino ai giorni nostri, il collasso dei miti fondanti e delle narrazioni legittimative provoca l’emergere di miti antichi e delle loro rappresentazioni immaginali: riemergono gli antichi dei. Il sacro è per definizione ambivalente, in quanto potenza pura: protettore e distruttore. Ciò vale per le divinità maschili e per quelle femminili. Il tema del lato femminile oscuro e distruttore è universale. Basti pensare al pantheon femminile indiano: Kālī, Durgā, Bhairavi, Camundi. Nel mondo mediterraneo invece la dialettica protettrice/distruttrice è legata alle divinità lunari, come spiega l’ottimo libro della Esther Harding (I misteri della donna, Roma, Astrolabio, 1973).

Da tempi remotissimi, ciclo femminile e ciclo lunare vengono assimilati. Ciò determina una identificazione della luna con divinità femminili, mentre in epoche ancor più remote erano rappresentate divinità maschili. Ishtar a Babilonia, Astarte in Fenicia, Iside in Egitto, Cibele in Frigia, Anahita in Persia, Afrodite in Grecia sono divinità che personificano la forza riproduttiva, che si pensava derivasse da influssi lunari. Sono inoltre divinità che, come la luna, vivono una dimensione ciclica: luna piena e luna nera, azione protettrice ed azione distruttiva. Aspetto materno e erotismo senza freni convivono in loro. Esercitano il potere della fertilità e quello della seduzione, che vengono recepiti come poteri istintuali, oscuri e distruttivi, quando non inquadrati da istituzioni umane, come la maternità all’interno del matrimonio. Le divinità che presiedono al matrimonio sono altre, le divinità lunari invece sono considerate “vergini”, nel senso di padrone della propria sessualità e non legate a nessun vincolo. Quindi libere di esprimere la loro dimensione istintuale. Teniamo presente che il termine greco parthenos e quello latino virgo non indicavano illibatezza, come nell’accezione contemporanea, ma libertà nel gestire il proprio eros.

Vengono spesso associate alla figura di un figlio/amante, che loro stesse uccidono –o castrano-, tranne poi risuscitare. Ad Ishtar corrisponde Tammuz, a Astarte Baal, a Iside Hor, a Cibele Attis, a Anahita Mithra, a Afrodite Adone. Si tratta, con tutta evidenza, di un complesso di miti legati alla rinascita della vegetazione, ma che esprimono anche altro. Jung, in Simboli della trasformazione, analizza il significato del mito dal punto di vista del bambino, che deve sacrificare la sua identità infantile ed edipica per diventare adulto. Dal punto di vista della madre, invece, significa liberarsi dalle limitazioni della maternità per esprimere il lato istintuale, che è parte significativa della sua identità.

Il carattere lunare del femminile porta con sé una natura ciclica in relazione con le fasi lunari. Questa prospettiva simbolica e psichica è stata ben rappresentata da un sogno di una paziente che la Harding riporta nel suo libro. Alla presenza di Sekhet, la dea egizia della vita, e su uno sfondo nero, sono presenti cinque figure femminili. La prima ha alle spalle una falce di luna crescente, la seconda una mezza luna crescente, la terza e centrale una luna piena, la quarta una mezza luna calante e la quinta una falce di luna calante. La luna nera, che non può essere vista, è rappresentata dallo sfondo nero. La prima figura è rappresentata come rivestita a tre quarti con squame di pesce, la seconda è rivestita a metà, la terza e centrale è priva di tale rivestimento, la quarta è rivestita a metà e l’ultima a tre quarti. Si intuisce che la luna nera debba essere interamente rivestita del suo aspetto animale, dove il pesce è simbolo di una condizione istintiva e non umanizzata. Si pensi al mito delle sirene, figure autoerotiche dal sangue freddo e prive di ogni umanità, che esprimono un istinto demoniaco. Il ciclo lunare, nell’intuizione della paziente, oscilla periodicamente tra la doppia polarità di “sociale-culturale” e di istintività.

Nell’antichità, perché questa polarità fosse chiara e sentita, veniva in molti luoghi praticata la prostituzione sacra. Ogni donna doveva, una volta nella vita, recarsi al tempio e concedersi al primo venuto. Doveva cioè praticare l’eros a prescindere da ogni connotazione sociale o personale. Doveva invece sentire la forza istintuale proveniente dalla dea e rendersi conto che questa potenza non le apparteneva. Ne era attraversata ed era uno strumento con cui la dea compiva la sua opera fecondatrice. Ovviamente, poiché non era una esperienza gradevole, in breve tempo venne sostituita dall’offerta della propria capigliatura alla dea.

Il carattere ambivalente del principio femminile intimorisce ed allo stesso tempo affascina gli uomini, per lo più inconsciamente, e li spinge a contenere questa forza che sentono minacciosa attraverso rituali sociali che ne determinino l’aspetto materno. Anche così tuttavia non si risolve la debolezza inconscia, perché la trasformazione in madre del femminile implica la trasformazione in figlio del maschile. D’altro lato, oltre a sviluppare paura inconscia e ostilità nata dalla pura, con conseguente atteggiamento di dominio, l’uomo è affascinato dal lato oscuro del femminile, perché, a differenza dell’immagine materna addomesticata da convenzioni sociali, sente in esso la presenza di una forza sacra che proviene da una divinità.

Questa potenza archetipica, che viene espressa in simboli, miti ed immagini, riemerge nei momenti di crisi, quando i miti che normano e controllano vengono meno. Per questa ragione, l’immagine della dark lady, benché rappresenti una banalizzazione dei miti di riferimento, trova spazio ai nostri tempi e rimanda a verità inconsce, che erano sepolte sotto la superfice del mondo solare ed ordinato. Questo emergere ha effetti positivi, in quanto relaziona con aspetti che non possono essere semplicemente rimossi e che vanno affrontati al fine di un riequilibrio psichico. Cosa di cui la nostra epoca sembra veramente aver bisogno.

 

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