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Mille populisti e un Professore: Monti, la Lega, Camusso e le pensioni da non toccare

Non sono un ammiratore di Mario Monti; non potrei esserlo visto che, fino a poco fa, di lui conoscevo poco più del nome. Dei suoi ministri, tranne Passera e Cancellieri (di cui amici bolognesi mi avevano detto grandi cose), non conoscevo neppure quello; sono un gruppo di signore e di signori dalle impressionanti credenziali accademiche e professionali, di cui, però, forse perchè vivo all'estero, non avevo mai sentito parlare.

Detto questo, non posso che essere grato a Monti per aver accettato un incarico da cui ben difficilmente otterrà onori e glorie. Se non riuscirà, con l'aiuto dei suoi ministri, a traghettarci fuori dalla crisi, verrà ricordato come un velleitario idiota; a lui, ne sono sicuro, saranno attribuite tutte le colpe di un disastro finanziario, che ha origini vecchie di trent'anni, per evitare il quale i governi della pseudo-destra che ha guidato l'Italia per la maggior parte dell'ultimo ventennio non hanno fatto assolutamente nulla. 

Se, against all odds, riuscirà nel suo intento, ampli settori della società italiana faranno anatema del suo nome; è quel che accadde a Prodi colpevole, per aver improntato al rigore finanziario la politica del suo ultimo governo, d'affamare i pensionati oltre che di aver svenduto il paese a zingari e romeni.

Riesca o no ad evitare il fallimento della baracca nazionale, Monti, e i primi giorni del suo governo già lo dimostrano, sarà dunque il facilissimo bersaglio contro cui scaglieranno le proprie frecce i mille populisti che infestano la nostra politica. Sarà il capro espiatorio per i milioni di colpevoli del nostro disastro: per gli evasori grandi e piccoli, i baby-pensionati e gli imboscati della Pubblica Amministrazione; per tutti i garantiti, e sono ancora legioni, di una società che ai giovani non garantisce più assolutamente nulla.

Non stupisce che la Lega si sia rifiutata d’appoggiare il governo Monti.

Persa la spinta rivoluzionaria delle origini, il movimento di Bossi è diventato il ricettacolo dei voti della parte più ignorante della società dell’Italia settentrionale; di una plebe padana (fenomeno sociologicamente affatto nuovo, figlio del vuoto lasciato dai tradizionali valori solidaristici cui la post-modernità non ha offerto alternative se non quella rappresentata dal più becero degli edonismi) che è tanto miope nella ricerca del proprio interesse particolare da non comprendere che questo non può realizzarsi se non dentro l’interesse più generale del paese.

E’ la stessa irrazionalità che fa sognare la crescita economica della Lombardia e del Veneto, disgiunta da quella delle regioni più povere del sud, quella che fa illudere la base leghista che vi possa essere una via di salvezza, per la Padania, diversa da quella che dovrebbe seguire il resto d’Italia.

E’ solo l’egoismo più stupido, quello che fa strillare alla difesa delle pensioni di anzianità quando milioni di giovani non hanno la minima reale protezione sociale. Quando la spesa previdenziale, anche prescindendo dalla crisi del debito, è tanto sproporzionatamente alta, rispetto agli altri paesi europei, da non lasciare risorse per la costruzione di uno stato sociale degno di questo nome.

Una miopia di cui soffrono anche i nostri sindacati; dati alla mano (basti pensare agli stipendi dei lavoratori italiani) i peggiori d’Europa.

“Quarant’anni è il numero magico” strilla Camusso, di cui pure, per solito, apprezzo la preparazione e la competenza. Perché mai debba esserlo solo per l’italia, però non lo spiega. Come si possa chiedere ai lavoratori tedeschi di fare il minimo sacrificio per aiutare i propri “privilegiati” colleghi italiani neppure. Perché a fianco dei suoi garantiti iscritti vi siano milioni di lavoratori italiani senza quasi la minima garanzia.

Un sindacato che davvero avesse a cuore gli interessi di tutti i lavoratori, non dovrebbe combattere una facile battaglia di retroguardia sull’abolizione della pensione d’anzianità: dovrebbe invece collaborare per individuare le categorie a cui si dovrebbe continuare a garantirla e, soprattutto, lottare affinché i risparmi realizzati in campo previdenziale siano integralmente reinvestiti nella spesa sociale o finiscano negli stipendi dei lavoratori. Dovrebbe combattere per far sì che i soldi delle pensioni non servano a tappare i buchi del bilancio statale, ma a finanziare quelle politiche di sviluppo, prima fra tutte il recupero del potere d’acquisto dei salari, senza le quali non sarà possibile uscire dalla crisi.

“Le pensioni non si toccano” è uno slogan becero; buono per i populisti di ogni colore; un’accattivante variante del “non metteremo le mani nelle tasche degli italiani” di così cattiva memoria.

Resta che la spesa previdenziale, certo più alta che altrove, dovrebbe essere solo uno dei fronti su cui dovrebbe agire il governo Monti per recuperare le risorse necessarie ad affrontare la crisi del debito; una riserva di capitali da intaccare solo dopo aver limitato in modo drastico le spese della politica ed aver istituito una imposta patrimoniale, strutturale e seriamente progressiva, che faccia pagare i conti della crisi a chi più ha approfittato del sistema che l’ha generata.

Misure che scontenteranno molti e che forse è illusorio pensare che Mario Monti, necessitando dell’approvazione dei figuri che popolano il nostro Parlamento (la notizia che molti Onorevoli stanno considerando l’ipotesi di dimettersi per non perdere i propri privilegi pensionistici mi riempie del più assoluto disgusto; migliaia di italiani sono morti, nella guerra di liberazione, per consentire a questi mentecatti di farsi gli affaracci propri), possa realizzare appieno.

Alla fine, però, tutto resta nelle mani del popolo italiano; saranno i sondaggi elettorali, in questa nostra strana democrazia d’inizio millennio, a stabilire quanto durerà e quel che potrà fare il governo Monti. Se i cittadini della Repubblica non si faranno irretire dai pifferai di turno, sono convinto che durerà molto (fino a fine legislatura)  e potrà fare molto.

Poi, passata la paura, se il Paese sarà uscito dal peggio della crisi, per Mario Monti, c’è da scommetterci, ci saranno solo ferocissime critiche a posteriori.

“L’ingratitudine è un dovere dei grandi popoli” disse Winston Churcill, dopo la sua sconfitta ad opera di Attlee nelle prime elezioni del dopoguerra, e nell’ingratitudine, noi italiani, siamo grandissimi.

Commenti all'articolo

  • Di pv21 (---.---.---.62) 2 dicembre 2011 19:23

    Amnesie >

    Alfano stigmatizza l’“imbecillità” di quegli “oroscopisti”, tra cui Goldman Sachs, che prevedevano un calo di 200 punti dello spread con le dimissioni di Berlusconi.
    Non ricorda che il 9 novembre l’impennata dello spread si è fermata in vista dei 600 punti solo dopo che Napolitano ha dato per “certe” le dimissioni del governo.
    Come non ricorda che lo spread è sceso a 450 appena Belusconi è salito al Colle.

    Del resto Alfano ora pretende che Monti, in nome della “sovranità nazionale”, anteponga la “libertà” di scelta del Parlamento agli “indirizzi” formulati in sede Europea.
    Non ricorda che l’ex governo Lega-Pdl ha tacciato di “inaffidabilità” l’opposizione perché non rispettosa del “dettato” della lettera UE.
    La memoria è caduca.
    Denegare la realtà dei fatti giova al Consenso Surrogato di chi è sensibile alla fascinazione mediatica …

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