Meglio una rete senza Stato che uno Stato senza rete

"Nelle condizioni in cui versano i media tradizionali, se si mettono le mordacchie alla rete ci ritroveremo tutti, blogger e lettori, rinserrati nel nostro angolino: liberi di leggere tutto, ma solo se è scritto su quel pezzetto di muro; liberi di urlare quel che vogliamo, purché lo urliamo ad un altro pezzetto di muro".
“Meglio avere dei giornali senza un governo, che un governo senza alcun giornale” disse Thomas Jefferson sintetizzando in una frase tutta l’importanza che la libera informazione ha per la sopravvivenza della democrazia.
I Padri Costituenti che avevano visto l’informazione ridursi a propaganda sotto il regime fascista, avevano questo concetto assolutamente chiaro; a questa loro capacità d’intendere quale sia l’essenza della democrazia, dobbiamo l’articolo 21 della nostra Costituzione che credo sia il caso di riportare per intero: “ Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo di ogni effetto”.
La normativa che garantisce all’Agcom la possibilità di oscurare dei siti, perché violerebbero i diritti d’autore, senza passare attraverso l’autorità giudiziaria è una palese violazione del dettato costituzionale. Se può essere condivisibile l’obiettivo di garantire a musicisti e scrittori una remunerazione per quella parte del loro lavoro che circola in rete, non può essere questo la scusa per attentare ad un diritto che sta alla base del nostro patto fondamentale; che fa, quanto e più del diritto di voto, la differenza tra un regime più o meno autoritario ed una democrazia.
Non basta che i cittadini possano votare, infatti, perché una democrazia possa dirsi compiuta; devono poterlo fare esprimendo, con il voto, la propria liberamente informata opinione. Una democrazia che non rispetti questa condizione, con buona pace di chi parla di possibili “democrazie non jeffersoniane”, semplicemente non è una democrazia.
Se qualunque norma che preveda la chiusura, senza una sentenza della magistratura, di un sito web è da ritenersi liberticida, ancor più grave va considerata la sua applicazione in un paese come il nostro dove la libertà d’informazione è gia, di fatto, in grave pericolo; dove il controllo esercitato dal presidente del Consiglio su quasi tutte (o tutte, viste le difficoltà che sta incontrando Santoro per trovare casa suLa7) le reti televisive nazionali rende difficile o impossibile per la grande maggioranza dei cittadini, che non legge giornali e non accede al web, aver accesso ad informazioni che non siano state selezionate e manipolate in funzione filo-governativa.
E’ una situazione, la nostra, perfettamente fotografata da Freedom House, la O.n.g. con sede a Washington che si occupa di ricerche sullo stato della democrazia e dei diritti, che classifica l’Italia, per il 2010, come paese solo parzialmente libero, caso unico per le democrazie occidentali, per quanto riguarda il diritto all’informazione.
Le parole con cui la O.n.g. americana accompagna il suo giudizio, motivato anche dai “crescenti tentativi del governo di interferire con la politica editoriale dei mezzi di comunicazione pubblici, in particolare circa la copertura degli scandali del premier Silvio Berlusconi”, suonano profetiche, ora, dopo aver ascoltato le telefonate, intercettate nel corso dell’inchiesta sul crack della società di sondaggi Hdg, in cui alti dirigenti della RAI (in particolare Deborah Bergamini, ex consulente Mediaset diventata, nel 2002, il vice direttore marketing strategico dell’azienda pubblica) si accordavano con i colleghi delle reti di proprietà di Silvio Berlusconi per elaborare una strategia tesa a sminuire la sconfitta elettorale subita dal partito di quest’ultimo nelle elezioni amministrative del 2005.
Non servono doti di veggente per immaginare un'Agcom, debitamente “sensibilizzata” agli interessi della maggioranza, impegnata nella più puntigliosa vigilanza dei siti d’informazione anti-governativi; non richiede la fantasia dello scrittore di fantascienza, alla luce di quanto sappiamo avvenire con i media tradizionali, immaginare gli sceriffi dell’Agcom pronti, con un colpo di mouse o poco più, a far sparire dal web le voci scomode, grazie al potere offerto loro dalla norma per la difesa del diritto d’autore.
Il diritto alla libertà d’informazione è, come e più degli altri diritti, combinazione di un diritto “negativo”, la libertà dai divieti, e di un diritto “positivo”: il diritto di poter effettivamente fare quanto non è vietato.
E’ questa seconda parte “positiva” del diritto all’informazione quella che è in pericolo: è perfettamente inutile che io possa informarmi dove meglio credo, se le uniche informazioni cui ho accesso sono quelle controllate dal governo; è perfettamente inutile che possa liberamente scrivere quello che penso, se poi non ho modo di far circolare i miei scritti.
Nelle condizioni in cui versano i media tradizionali, se si mettono le mordacchie alla rete ci ritroveremo tutti, bloggers e lettori, rinserrati nel nostro angolino: liberi di leggere tutto, ma solo se è scritto su quel pezzetto di muro; liberi di urlare quel che vogliamo, purché lo urliamo ad un altro pezzetto di muro.
Da sempre, il primo passo nel controllo dall’alto di una società consiste nell’isolamento delle coscienze rimaste vive; nel fare sentire solo, isolato, diverso, che pensa in modo difforme dai desideri dell’autorità. Dentro una rete ingabbiata ci ritroveremmo, tutti, soli; potremmo arrivare a pensare d’essere gli unici ad avere determinate idee o a vedere la realtà in un certo modo. Saremmo, uno per uno, carne da campo di concentramento o da gulag. Esagero? Si tratta solo di prendere il giochino che, magari senza saperlo, stanno avviare per avviare i promotori delle norme per la difesa del diritto d’autore e portarlo un passo più avanti.
Fosse vivo oggi Thomas Jefferson, non ho dubbi, direbbe: “Meglio una rete senza stato che uno stato senza rete”.
In Cina e Iran non la pensano così. In Italia, molti, forse non pensano.
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