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Ma non chiamiamola resistenza

Ma non chiamiamola resistenza

Chi come me frequenta assiduamente internet sa che una marea possente e festosa si sta inarrestabilmente sollevando dal basso. Ogni fenomeno di compressione della vitalità umana finisce immancabilmente per produrre fenomeni dirompenti in altre direzioni. La sostanza vivace e intelligente di questo Paese, schiacciata a forza nell’ombra, nel silenzio, dalle convenienze di una dirigenza miope o disonesta ha trovato nella rete –mezzo costituzionalmente libero- accoglienza alla propria necessaria passione di vivere.

Il popolo di internet, però, approdato alla rete come a un’isola di paradiso proveniente da un mondo altrimenti infernale sembra aver portato con sé come pesante bagaglio anche un ricordo del proprio passato costretto, a tratti la scia di un senso di prigionia, che informa gli attuali sentimenti della rete facendoli somigliare più a reazioni che azioni.

Uno degli atteggiamenti più diffusi in rete è quello di dichiararsi contro qualcosa o qualcuno, uno degli inviti che più insistentemente ti senti rivolgere è quello alla resistenza. Ma essere in rete è già l’inizio di una nuova opportunità, non un semplice mezzo di sopravvivenza al presente. Quindi resistere perché? Esserci finalmente non basta?

Chi resiste è trattenuto, è sotto schiaffo, è costretto. Chi resiste si oppone a una minaccia, è impedito a vivere da qualcosa che lo impedisce. Chi resiste lo fa rispetto a un invincibile forza in campo. Parlare di resistenza è un modo per ammettere di non essere totalmente già liberi. Non immediatamente disponibili all’azione di cambiamento. È parola di impotenti che si gridano, tremando, potenti.

E poi avercela con chi? resistere contro cosa? Questo paese non è stato preso con le armi, ha ceduto lungamente per indifferenza. Non siamo stati costretti con la forza. Abbiamo solo avuto altro da fare. Ogni altra cosa ci è sembrata lungamente più importante che occuparci delle cose comuni. Per quanto mi riguarda appartengo alla prima generazione degli indifferenti, i figli di quelli che avevano patito la fame della guerra e a cui è stato detto “tu non dovrai soffrire come abbiamo sofferto noi”.

La grande guerra era alle spalle. Hanno creduto i nostri padri, e a noi è piaciuto crederlo con loro, che le cose umane fossero state fatte una volta per tutte e che fossimo perciò quella fortunata umanità che avrebbe potuto finalmente occuparsi d’altro. E abbiamo lasciato tutti indietro, compreso i padri che ci avevano regalato questo tempo privilegiato col proprio sacrificio, smarrendo legami e senso, per partire leggeri alla conquista del mondo. La Nazione era stata fatta potevamo occuparci esclusivamente di noi stessi.

Ma lasciata senza manutenzione, la strada costruita per noi, mano a mano che andavamo, ci si è sgretolata sotto i piedi e con essa i sogni con i quali ci avevano caricato a molla verso l’altrove. Pare, e andrebbe compreso per sempre, che i traguardi dello spirito muoiano con gli uomini e vadano riconquistati ad ogni generazione. Noi non l’abbiamo fatto. Non abbiamo vegliato sul nostro tempo.

Perciò non capisco la parola resistenza, non riesco ad offrirle spazio dentro di me. Contiene una presa di distanza, un’immotivata pena per noi stessi. Manco fossimo stati prigionieri, impediti a scegliere. Guardavamo e pensavamo semplicemente ad altro, nulla è stato, per lungo tempo, abbastanza grave.

C’è ora questa marea possente e festosa che si sta sollevando dal basso. Ma per favore non chiamiamola resistenza. Solo dormivamo e ci siamo svegliati.

Svegliarsi è tutto, esserci sarà abbastanza. Un piede dietro l’altro sarà sufficiente. Non c’è nulla da temere, nulla ci minaccia, tranne, ora come allora, la tentazione di cedere il passo.

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