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Liberalizzazioni, se non ora quando?

A tutti piacerebbe passeggiare per il centro di Roma, di Milano o di Torino, fare un cenno con la mano, salire su un taxi e trovarsi dall’altra parte della città.

A prezzi non bassi ma almeno concorrenziali. Succede in tutte le metropoli del mondo New York, Buenos Aires, Tokio e Londra. In Italia questo non è stato mai possibile, almeno fino ad ora. Le auto bianche sono poche, non forniscono un servizio efficiente e le tariffe delle corse sono proibitive.

Una volta ho dovuto prendere un taxi da via Nomentana all’aeroporto di Fiumicino. Per chi conosce Roma, sa che è un tragitto extraurbano non molto lungo. In una giornata con traffico scorrevole ho pagato 70 euro. Il 3.5% del mio stipendio. Era un evento eccezionale e l’azienda mi rimborsava la spesa. Se non fosse stato per questi due fattori non avrei mai deciso di utilizzare il mezzo di trasporto, balzato in questi giorni all’onore delle cronache a causa delle liberalizzazioni del governo.

Quello che in altre città del mondo è un fatto naturale come andare in metro o salire su un autobus, da noi diventa un bene esclusivo, quasi di lusso, riservato ad una cerchia di pochi eletti. Il servizio erogato dai taxi, per come è concepito ora in Italia, è una attività che favorisce solamente i possessori delle attuali licenze e pochi altri: i consumatori non hanno un riscontro adeguato alle aspettative, mentre a coloro che vorrebbero immettersi in questo mercato è quasi proibito accedervi.

Appare quindi giusta la decisione del governo Monti che per dare uno scossone all’economia reale ha iniziato a liberalizzare campi produttivi, fino ad ora ingessati, troppo poco permeabili alle regole della concorrenza. E’ doveroso concordare le misure con le parti interessate, ma una volta riservato un tempo adeguato alla concertazione si deve procedere. E fare presto. Nonostante gli scioperi.

Certo i destinatari del rinnovamento non possono essere solo i tassisti che dal loro punto di vista comprensibilmente difendono le prerogative di cui hanno goduto fino ad adesso. Farmacisti, notai, commercialisti (e l’elenco sarebbe ancora lungo) sono tutte professioni, tramandate di padre in figlio, destinatarie di tutele spropositate. Sono caste che si sono auto tutelate, facendo in modo che il loro benessere non corrispondesse al benessere e alla funzionalità del nostro sistema.

E’ tempo di ripristinare il nesso tra studi, capacità, merito e professione troppo a lungo sostituito dal binomio privilegio – rendita di posizione. Qualcuno soprattutto a destra (che dovrebbe essere la parte politica più aperta al libero mercato) sta già dicendo che così si distrugge il tessuto produttivo del nostro paese. Così facendo si intaccherebbero professioni che hanno dato molto e hanno costituito l’ossatura del nostro sistema. Sembra invece che mai come adesso, bisogna ripartire rompendo l’equilibrio che si era costituito accontentando pochi e scontentando i più.

Fino a quando camminerò per le strade di Roma senza vedere due taxi che corrono per accaparrarsi un cliente, fino a quando un gruppo di giovani laureati dopo il giusto tirocinio non abbia la facoltà (che coincide con il diritto) di aprire liberamente una propria farmacia, fino a quando non potrò scegliere io dove comprare i miei farmaci a prezzi più vantaggiosi, fino a quando non conoscerò un notaio il cui padre non faceva la stessa professione, avrò la certezza che il nostro sistema porta in sé qualcosa che non funziona.

Dicono che bisognava partire da banche e petrolieri. Sicuramente è vero. Certo però è più difficile che un giovane professionista del 2012 aspiri immediatamente ad amministrare una banca o una azienda petrolifera. Incominciamo dalla vita di tutti i giorni . Arriverà il momento in cui liberalizzate le professioni “comuni” anche i banchieri, i petrolieri e soprattutto i governi non avranno più alibi.

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